L'ESPRESSO on line - aprile 2006

CALABRIA / CRIMINALITA' ALL'ASSALTO


Killer nero
e boss in camice bianco


L'omicidio Fortugno. Le mani sugli appalti. E sulla sanità. Nella regione è emergenza infinita.
E le cosche allungano la loro ombra sulla politica



di Marco Lillo


Ci sono voluti cinque colpi di pistola e un cadavere per risvegliare lo Stato dall'apatia. Dopo l'omicidio del vicepresidente del Consiglio regionale calabrese Franco Fortugno non si può più fare finta di niente. Dall'inizio dell'anno ci sono stati 23 omicidi di 'ndrangheta in Calabria, decine di attentati, ferimenti, incendi e minacce ai politici calabresi. Gli allarmi però finora si sono spenti tra la Sila e l'Aspromonte. Solo domenica 16 ottobre la Calabria è tornata a essere anche un'emergenza italiana: le teste più fini dell'antimafia sono piombate a Reggio e ora carabinieri e polizia stanno analizzando le carte delle vecchie inchieste sulle cosche dello Ionio per poter tirare un filo da cui partire.

Chi ha ucciso Fortugno? Per rispondere a questa domanda, se va bene, ci vorranno mesi. Intanto le indagini partono da una constatazione: Fortugno era il responsabile regionale della Sanità della Margherita, il partito che esprime il presidente della Regione, Agazio Loiero. Prima di candidarsi era stato segretario regionale della Cisl sanità e primario all'ospedale di Locri, dove la moglie è direttore sanitario. È stato ucciso proprio a Locri, mentre votava per le primarie del centro-sinistra. Tra gli inquirenti circola una battuta: l'assassino aveva un abito nero, ma il movente ha il camice bianco. Il maggiore esperto di locride nel Palazzo di Giustizia di Reggio è senza dubbio il pm Nicola Gratteri: "Nella sanità si muovono interessi enormi, ma è presto per trarre conclusioni. Spero solo che la morte di Fortugno serva allo Stato per capire che bisogna invertire la rotta. Dopo dieci anni di leggi che danno garanzie all'individuo forse è giunta l'ora di fare leggi più dure che diano qualche garanzia anche alla collettività". Gli investigatori sono concordi nel ritenere simbolico sia l'obiettivo, il referente del presidente Loiero nella locride, sia le modalità dell'omicidio, avvenuto davanti alle urne. La criminalità lancia un messaggio a chi governa la Regione e soprattutto regge i cordoni della spesa sanitaria che rappresenta il 73 per cento del bilancio. In questi giorni ci sono cinque primariati da fare, decine di appalti da assegnare e proprio di sanità sembra si sia parlato nella riunione tra i boss che si è tenuta questa estate, come ogni anno, al santuario della Madonna di Polsi nel cuore dell'Aspromonte. C'erano tutti i capi delle 'locali', le cosche della 'ndrangheta.

Per illuminare il quadro i carabinieri puntano il faro sulle famiglie di Locri: i Cataldo e i Cordì ma anche sul clan di Peppe Morabito detto il Tiradritto. Il vecchio boss di Africo dal 18 febbraio del 2004 è chiuso nell'isolamento dell'articolo 41 bis, ma molti suoi familiari sono fuori e beneficiano dell'alone di rispetto riservato al boss dei boss. Una figlia di Morabito lavora all'ospedale di Locri mentre il marito, Giuseppe Pansera, prima di darsi alla latitanza era medico dell'ospedale di Melito ed è stato processato (e assolto) nell'inchiesta sui rapporti tra mafia e medici dell'Università di Messina. Pansera, pluripregiudicato, quando è stato arrestato nel febbraio del 2004 non aveva in mano un bisturi, ma una pistola dello stesso modello di quella trovata addosso al suocero. Tiradritto e Pansera si nascondevano vicino a Reggio Calabria ma la carriera criminale di Morabito si snoda nella locride.

A partire dal 1967, quando Tiradritto fu accusato di essere tra i mandanti della strage di Locri, nella quale furono trucidati tre suoi presunti rivali. Per quella strage Morabito fu processato nel 1971 e assolto per insufficienza di prove e poi ancora indagato nel 1981, ma anche quella volta ne venne fuori. Il boss non è mai stato condannato per mafia fino al 1995 e ha sempre querelato chi lo accostava alla criminalità. Solo nel 1992 si è dato alla latitanza a causa della prima ordinanza di arresto per traffico internazionale di stupefacenti.

Il Tiradritto, a giudizio degli inquirenti, può contare su buoni rapporti con la mafia siciliana. Secondo alcuni pentiti, Totò Riina in persona è stato più volte ad Africo. E nonostante l'aspetto da semplice contadino con la coppola, Tiradritto trattava con le imprese romane per imporre le sue ditte negli appalti. Un ingegnere di una società di costruzioni, Diego Dell'Erba, ha raccontato ai magistrati un incontro da brivido nella casa di Africo del boss: "Fummo ricevuti in sala da pranzo e Morabito ci fece capire chiaramente che lui era interessato al lavoro e che nessun altro doveva entrarci". L'ingegnere tentennava, il boss salì a Roma per incontrarlo in un ristorante: "Ribadiva che voleva l'appalto ma era molto tranquillo". La calma di chi non deve alzare la voce per ottenere rispetto. È questo lo stile Tiradritto. Con lo Stato ha sempre trattato da pari a pari. Quando l'allora capo della Polizia Vincenzo Parisi scese in Calabria nel 1989, all'apice dell'emergenza sequestri, don Peppe gli fece notificare una diffida a occuparsi di lui. L'ufficiale giudiziario entrò nella sede del Tribunale di Locri, dove Parisi stava tenendo un vertice sulla 'ndrangheta, tra lo sconcerto dei presenti. Tiradritto guarda lo Stato dall'alto in basso e gioca la sua partita con freddezza.

Lo ha dimostrato quando ha fatto i complimenti per il suo arresto al Ros dei Carabinieri: "Se non mi prendevate voi, non mi prendeva nessuno", ma anche quando ha perso un figlio nel 1996 per uno sbaglio della polizia. Domenico Morabito è stato ucciso subito dopo il suo arresto all'età di 39 anni sulla strada di Africo. I carabinieri di Bianco lo avevano strappato all'abbraccio della folla locale sparando qualche colpo in aria. I colpi attirarono una vettura della polizia, ad Africo non si gira in divisa e così poliziotti e carabinieri, convinti entrambi di avere a che fare con una macchina piena di 'ndranghetisti armati, spararono ad altezza d'uomo. Un proiettile colpì alla testa il figlio del Tiradritto che morì all'ospedale di Locri. Quando le automobili degli amici della famiglia stavano prendendo posizione davanti alla caserma dei carabinieri di Bianco, arrivò dall'alto l'ordine di non reagire. L'ennesima prova della forza tranquilla del "boss più carismatico e autorevole della 'ndrangheta calabrese", come ha scritto nella sua richiesta di arresto del 2000 il pm Nicola Gratteri, uno dei pochi rimasti a combattere la 'ndrangheta e i suoi rapporti perversi con la politica.

Nel 1998 il genero di Tiradritto, Giuseppe Pansera, mentre era intercettato dalla polizia su ordine del pm Gratteri, parlava di esplosivi da acquistare, ma si occupava anche delle elezioni provinciali. In particolare dava indicazioni per appoggiare un medico pregiudicato che si candidava con la Lista Dini. Oggi Pansera è in carcere a Parma, mentre resta in libertà l'altro genero del boss: Francesco Sculli, direttore dell'ufficio tecnico di Bruzzano Zeffirio, un comune di 2 mila abitanti a pochi chilometri da Locri. Francesco è il padre del più famoso Giuseppe Sculli, calciatore della nazionale under 21 e del Messina. Il giocatore è il nipote prediletto del boss non solo per le sue doti calcistiche. Sia Francesco che Giuseppe Sculli, nonostante il successo del calciatore, restano molto attaccati alla realtà locale e si interessano attivamente anche di politica, nella locride. Le indagini per arrestare Tiradritto hanno coinvolto indirettamente il genero e il nipote.

Il centrocampista del Messina ha sempre rivendicato il suo rispetto per il nonno e non ha mai voluto tagliare i ponti con la famiglia. Per questa ragione è stato osservato con discrezione dai carabinieri sia in Emilia, quando giocava al Nord, che in Calabria. Il Ros sperava di intravedere allo stadio o dietro la rete del campetto degli allenamenti la sagoma inconfondibile del Tiradritto. Non è andata così: Giuseppe Sculli ha sentito la notizia dell'arresto del nonno al ritorno dalla trasferta di Atene con l'Under 21: "Quando l'ho saputo mi è cascato il mondo addosso", ha commentato. Anche per la terza generazione, la famiglia viene prima di tutto.

ha collaborato Roberto Gullotta






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