22.11.2006 – Unità

Chi ha ucciso l´Antimafia
di Nando Dalla Chiesa

Chi ha ucciso la commissione Antimafia? La politica, non c'è dubbio. Doveva essere la punta di diamante del Parlamento nella lotta alla mafia, un Parlamento prudente, equilibrato, chi lo discute, però serio, credibile. E invece eccola qui, arnese senza prestigio, materia di mercanteggiamenti, addirittura più controproducente che altro. Giudizio eccessivo? Non mi pare. Perché qui la questione - sia chiaro - non è solo quella dell'indecenza simbolica, dell'affronto implicito nella presenza di pregiudicati per reati contro la pubblica amministrazione.

Dove? In una commissione che ha la funzione di rappresentare la pubblica amministrazione nella sua battaglia per la legalità. E non riguarda nemmeno solo il mistero di una stragrande maggioranza di parlamentari che ha rifiutato di fare propria la proposta bipartisan Licandro-Napoli di escludere chi è ragionevolmente ritenuto vicino ad ambienti «complici». Proposta che non aveva proprio nulla di «giudiziario» ma moltissimo di «politico» (se no che diavolo è il famoso controllo politico diverso da quello giudiziario? qualcuno lo può spiegare?). Il problema è che, come è già accaduto con la commissione Stragi, l'uso che si è fatto dell'Antimafia ne ha decretato la morte. Si può continuare con l'accanimento terapeutico, ma il malato è morto. Punto e a capo.

Proprio poche settimane fa, richiesto di intervenire nel dibattito se insistere con le cure o staccare la spina, avevo proposto di dare al parlamento l'ultima chance. Perché sono il primo a sapere quale può essere l'importanza di una buona commissione Antimafia in un paese martoriato da organizzazioni criminali di ogni genere e specie. Vogliamo mettere? Una istituzione rispettata che ha gli stessi poteri della magistratura, parlamentari formati dalla lotta politica contro il crimine o dagli studi più seri sull'argomento, l'attenzione perfino spasmodica dei media, i viaggi nelle zone più difficili per portarvi conforto a chi rischia e minaccia di sanzioni ai felloni. Certo, tutto questo può essere una commissione Antimafia. Ma questo la politica ha deciso che non sia più, rivendicando il diritto (incontestato, purtroppo) di metterci dentro chi si vuole da parte di ciascuno. Offendendo il buon senso del cittadino medio: il quale vorrebbe -pensa te che bizzarria- che la lotta alla mafia la facessero non si dice gli antimafiosi per biografia, ma almeno quelli che hanno dato prova nella vita di avere il senso delle leggi e delle istituzioni. O no? Largo invece ai pregiudicati, da Cirino Pomicino ad Alfredo Vito, nominati formalmente a quel ruolo addirittura dai presidenti delle Camere (in questo caso non essendovi infatti una nomina automatica da parte dei gruppi parlamentari di appartenenza). Insomma. L'ultima chance c'è stata. L'ultima chance è stata buttata. Non si sa se con più miopia o più cinismo.

La questione vera, dicevo, è tutt'altro che simbolica. Ma è quella, praticissima, che viene subito dopo le scelte fatte; ossia quella dei meccanismi che inevitabilmente produrrà questa prova del nove, questa dimostrazione che i partiti non hanno alcuna volontà di porre la commissione al di sopra dei sospetti. Di darle credibilità, affidabilità. Succederà questo. Succederà che un magistrato, un commissario di polizia, un ufficiale dei carabinieri, quando sarà chiamato a deporre davanti alla Commissione si chiederà che uso sarà mai fatto delle informazioni che è chiamato a dare. Resterà tutto qui in questa stanza?, si chiederà. Basterà l'accorgimento di fare secretare i passaggi più delicati? O piuttosto quello che sto dicendo sarà trasmesso a chi non lo deve sapere? Mica per complicità intenzionale, si capisce. Ma perché può spuntare un amico a chiedere piccole confidenze, un amico politico del posto, che poi a sua volta parlerà, farà sapere. O ci sarà una confidenza fatta in un ambiente frequentato da qualche infiltrato «loro». Manderò in fumo le mie indagini, il nostro lavoro?, si chiederà ancora la fonte informativa. O addirittura correrò dei rischi personali aggiuntivi spiegando in anticipo che cosa penso, in che direzione sto indagando?

Proviamo a metterci nei panni del servitore dello Stato in trincea, che già opera in ambienti in cui anche i muri hanno le orecchie. Perché dovrebbe dire tutto quello che fa a decine di sconosciuti che sa, già in partenza, che non sono passati attraverso alcun filtro morale e politico? Che «non si è voluto», anzi, che ci passassero? Ricordo una volta che, nella scorsa legislatura, partecipai a una audizione che riguardava la presenza della mafia in Emilia-Romagna. A una precisa domanda su una banca, il giovane ufficiale della Guardia di Finanza interpellato rispose «questo è segreto istruttorio».

Probabilmente non sapeva, appunto, che la commissione ha gli stessi poteri della magistratura. E francamente, sulle prime, mi sentii urtato, quasi offeso da quella risposta. Poi provai a rifletterci. Conoscesse o no i poteri della commissione, non è che per caso quell'ufficiale avesse cercato di tutelare il suo lavoro? Confesso sinceramente che se qualcuno dovesse comportarsi così di fronte all'ennesima cattiva prova della politica, io avrei difficoltà a criticarlo. E non per scarso senso delle istituzioni, ma proprio per difendere meglio il lavoro delle istituzioni, quelle che stanno in prima fila.

Ma se così è, se l'inchiesta non si può fare, che senso ha tenere in vita una commissione che già in partenza sarà priva di quell'idem sentire che solo garantisce affidabilità a organismi del genere? Non si tratta qui di trasformare in anatemi i nomi, visto che è anche possibile che Cirino Pomicino non sia poi il peggior fico del bigoncio. E nemmeno si tratta di entrare nel merito della novità (pur notevole) dei fondi limitati su cui la Commissione potrà contare questa volta. Qui si tratta di capire che non c'è più la premessa necessaria, minima e indispensabile, dell'inchiesta parlamentare. E che questa premessa viene meno non solo di fronte all'investigatore ma anche di fronte all'associazione antiracket o all'assessore che voglia fare una denuncia ufficiale. O non lo ricordiamo più Piersanti Mattarella che, da presidente della Regione Sicilia, fa le sue denunce in consiglio dei ministri con i boss che ne vengono a sapere il contenuto mezz'ora dopo? Morale: al di là delle discettazioni bizantine (i sospetti, le prerogative dei parlamentari ecc.), la commissione non c'è più. La scorsa legislatura le ha dato una mazzata mortale, la nuova legislatura le ha dato il colpo di grazia. È un grande apologo, conveniamone, della irriformabilità della politica. La quale può fare leggi migliori (questo governo le farà, a partire dalla confisca dei beni), ma mai riesce a garantire in proprio un elevato grado di credibilità dei suoi esponenti. Le soluzioni? Due proposte.

La prima è istituzionale. Si faccia finalmente, sia alla Camera sia al Senato, una commissione permanente Interni, in cui discutere e affrontare i temi della sicurezza, ben oltre i limiti tipici delle commissioni Giustizia e Affari Costituzionali. E lì si lavori seriamente, senza avere i poteri d'inchiesta ma con la ricchezza di informazioni che la normale attività parlamentare può comunque offrire. La seconda proposta è civile. La commissione antimafia sia fatta fuori dal parlamento da studiosi, giornalisti, esponenti di associazioni, anche esponenti politici (da Orazio Licandro ad Angela Napoli, per capirsi) che in modo sistematico -e su base volontaria- lavorino al monitoraggio del materiale esistente e su quella scorta forniscano un rapporto annuale al paese, facendo riferimento a un comune grappolo di valori e di riferimenti. Con stile istituzionale, senza nulla concedere ai sussulti di indignazione, ma anche senza nulla concedere ai «grandi elettori», alle pressioni a omettere, all'interesse a proteggere questa o quella parte politica. Un rapporto prestigioso, esattamente come avviene con i rapporti sullo stato dell'economia e dei conti pubblici o sulla qualità della vita nelle città. Il resto è finito, purtroppo. Facciamocene una ragione e andiamo avanti. Potrebbe anche nascerne qualcosa di buono.






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