dal sito marcotravaglio.it

L'Ultimo chiuda la porta
di Marco Travaglio


Siccome circolano, su presunti siti “antimafia” e nel solito articolo-spazzatura di Lino Jannuzzi sul Giornale, varie fesserie sul processo per la mancata perquisizione del covo di Riina, a carico del generale Mario Mori e del capitano "Ultimo", e sulla puntata di "Annozero" nella quale ho parlato della sentenza, penso sia giusto che chi vuole saperne di più abbia a disposizione la sentenza del Tribunale di Palermo che ricostruisce l’intera vicenda. Così si vedrà chi dice il falso e chi dice il vero.
Qui mi limito, per brevità, a riepilogare i punti fondamentali, emersi dal processo di Palermo concluso il 20 febbraio 2006 con una sentenza che ha assolto Mori e “Ultimo” perché non c'è la prova che le loro gravissime omissioni siano state commesse apposta per favorire illecitamente la mafia o qualcun altro.
Sei mesi prima di arrestare Riina, nell’estate del ’92, subito dopo la strage di Capaci e prima di via d'Amelio, l’allora colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, entrambi ai vertici del Ros dei Carabinieri, avviano una trattativa con la mafia tramite l'ex sindaco Vito Ciancimino, condannato per mafia, uomo di Riina e Provenzano, detenuto a Roma (l’hanno raccontato sia Mori, sia De Donno, sia Ciancimino padre, sia Ciancimino figlio). Quando Riina viene a sapere che Mori s'è fatto avanti, stappa lo champagne: è la prova che le stragi pagano. Così alza il tiro per alzare la posta della trattativa. Uccide Borsellino e pianifica gli attentati di Milano, Firenze e Roma, che poi saranno realizzati dai suoi successori, nell'estate del '93, dopo il suo arresto.
La trattativa prosegue anche dopo via d'Amelio, fino al gennaio '93, quando Riina viene catturato a Palermo. Chi abbia segnalato il nascondiglio ai carabinieri, non s'è mai saputo. Riina pensa di essere stato venduto da Provenzano, ma non c'è la prova. Guardacaso, però, quelli che prendono Riina sono gli stessi Ros che hanno trattato con Riina e Provenzano tramite Ciancimino, fino al giorno prima. Questo aiuta a capire quello che succede dopo.
Riina viene arrestato alle 8.28 del mattino del 15 gennaio ‘93. La Procura di Caselli, che è arrivato a Palermo proprio quel giorno, manda i carabinieri della Territoriale e un pm a perquisire il covo dove Riina viveva latitante, in via Bernini 54 a Palermo. Ma il capitano Ultimo convince i magistrati a bloccare il blitz. Meglio aspettare: Riina è stato preso lontano dal covo, per strada, i mafiosi potrebbero pensare che il covo non sia stato scoperto e andarci a prelevare la moglie e i quattro figli di Riina, o le carte del boss appena arrestato. Meglio non insospettirli, e arrestare anche quelli. Ottima idea. Naturalmente, per arrestarli, bisogna rimanere appostati davanti al covo o sorvegliarlo con telecamere giorno e notte.
Invece, alle 16 dello stesso giorno, i Ros ritirano il camioncino che stazionava lì da giorni e tolgono pure la telecamera nascosta in un lampione che illuminava l’ingresso del complesso residenziale. Da quel momento il covo resta totalmente  incustodito per 15 giorni. Così i mafiosi che curavano la latitanza di Riina, i fratelli Sansone, hanno tutto il tempo di andare a prendere moglie e figli di Riina e spedirli a Corleone; poi tornano con l’impresa traslochi e portare via tutto; poi tornano con gli imbianchini e i muratori per tinteggiare e ristrutturare l’appartamento, facendo sparire ogni più piccola traccia. E, forse, i documenti che, secondo molti mafiosi pentiti, Riina teneva sempre con sé in cassaforte.
A fine gennaio ‘93, la Procura scopre che i carabinieri sono scappati. Caselli dispone la perquisizione, ma non trova più niente: invece dello Stato, il covo l’ha perquisito la mafia.
I due imputati al processo si difendono dicendo che ci fu un malinteso con la Procura, che mai avrebbero potuto tenere il covo sotto controllo perché restare lì era poco sicuro, gli uomini erano stanchi, la strada era stretta e comunque il servizio di osservazione e di teleripresa era “impossibile” e “inutile”. Ma queste affermazioni si contraddicono. Se davvero era pericoloso restare lì davanti a osservare e filmare, allora bisognava perquisire subito la casa, prima di andarsene. Così, se Riina teneva carte importanti in cassaforte, queste sarebbero in mano allo Stato, anziché alla mafia. Se invece l’appostamento era ritenuto inutile, chi prese quella decisione meriterebbe una perizia psichiatrica, visto che restando lì i Ros avrebbero avvistato, e dunque catturato, i fratelli Sansone. I quali invece, grazie alla fuga del Ros, poterono agire indisturbati, svuotando e ridipingendo la casa nell’assoluta certezza di non essere visti né arrestati. Insomma: se fosse stato mantenuto l’appostamento o il servizio di osservazione, si sarebbero arrestati dei mafiosi; se si fosse perquisito il covo, si sarebbero sequestrate quelle carte che anche i giudici del tribunale ritengono probabilissimo che Riina nascondesse in casa. Invece non si fece né l’una né l’altra cosa, e lo Stato rimase con un pugno di mosche in mano.
Il 20 febbraio 2006 i giudici del Tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti, a latere Sergio Ziino e Claudia Rosini, assolvono Mori e Ultimo con la sentenza che da oggi è disponibile integralmente sul sito. Ma scrivono che bene fece la Procura a indagarli, perchè “l’omessa perquisizione e la disattivazione del dispositivo di controllo… del capo di Cosa nostra appare condotta astrattamente idonea a integrare non solo il favoreggiamento aggravato, ma il concorso nel reato associativo, ove si dimostrino… il dolo e l’efficienza causale”.
I giudici escludono di avere le prove per condannare i due ufficiali sul piano penale, ma segnalano le loro gravissime responsabilità disciplinari.
1) “La posizione apicale del Riina ai vertici dell'organizzazione criminale ben poteva far ritenere che lo stesso conservasse nella propria abitazione un archivio rilevante per successive indagini su Cosa nostra… Tenuto conto che la di lui famiglia era rimasta in via Bernini, poteva di certo ipotizzarsi che altri sodali, aventi l'interesse a mettersi in contatto con la stessa, vi si recassero.
… Il fatto che il Riina fosse stato trovato, al momento del suo arresto, in possesso di diversi ‘pizzini’, ovvero di biglietti cartacei contenenti informazioni sugli affari portati avanti dall'organizzazione, con riferimento ad appalti, alle imprese e alle persone coinvolte, costituisce un ulteriore preciso elemento, in questo caso di fatto”. Dunque “l'omessa perquisizione della casa e l'abbandono del sito sino ad allora sorvegliato hanno comportato il rischio di devianza delle indagini che, difatti, nella fattispecie si è pienamente verificato”: Mori e Ultimo erano solo distratti, o c’è dell’altro? E che cosa? Quali documenti conservava Riina che non dovevano finire in mano ai magistrati e che sono rimasti in mano alla mafia di Provenzano? E che uso ne ha fatto, o magari ne sta facendo ancora oggi, Cosa Nostra, magari per ricattare lo Stato o qualche uomo delle istituzioni?
2) La Procura di Palermo accolse la proposta del Ros di rinviare la perquisizione calcolando il rischio di consentire “a Ninetta Bagarella, che vi dimorava, o ai Sansone, che dimoravano in altre ville ma nello stesso comprensorio, di distruggere od occultare la documentazione eventualmente conservata dal Riina... Tale scelta, però, fu adottata certamente sul presupposto indefettibile che fosse proseguito il servizio di video-sorveglianza sul complesso di via Bernini. Che questa fosse la condizione posta al rinvio della perquisizione,  è un dato certo ed acclarato...”. Perché dunque il Ros abbandonò la zona e disattivò la video-sorveglianza?
3) ”Al di là delle confuse argomentazioni degli imputati, è indubitabile che la decisione assunta da De Caprio (di andarsene, ndr) era incompatibile con la direttiva di proseguire il controllo… impartita dall'Autorità giudiziaria e… andava immediatamente comunicata” alla Procura. Che avrebbe subito disposto il blitz. Invece Caselli fu avvertito solo dopo 15 giorni. Perché?
4) ”Il sito... fu abbandonato e nessuna comunicazione fu data agli inquirenti. Questo elemento tuttavia, se certamente idoneo all'insorgere di una responsabilità disciplinare, perché riferibile a un’erronea valutazione dei propri spazi di intervento, appare equivoco ai fini della responsabilità penale”. Perché nessuno ha mai contestato ai due imputati questa evidente responsabilità? Perché, anzi, Mori dopo quell’errore marchiano fu addirittura promosso dal governo Berlusconi capo del Sisde e confermato dal governo dell’Unione dopo quelle durissime parole dei giudici?
5) Prima della cattura di Rina, ”Mori pose in essere un’iniziativa spregiudicata che, nell'intento di scompaginare le fila di Cosa nostra e acquisire informazioni, sortì invece due effetti diversi e opposti: la collaborazione del Ciancimino” che sperava di dare qualche indicazione utile sul covo di Riina “per alleggerire la propria posizione”; e “la ‘devastante’ consapevolezza, in capo all'associazione criminale, che le stragi effettivamente ‘pagassero’ e lo Stato fosse ormai in ginocchio, pronto ad addivenire a patti”. Tant’è che Cosa Nostra, per alzare il prezzo della trattativa, pianificò le stragi del ’93 a Milano, Firenze e Roma. I giudici spiegano che “non è stato possibile accertare la causale del comportamento degli imputati”: cioè perché hanno omesso di perquisire il covo”.
Ora che il processo penale è chiuso, forse bisognerebbe chiamare in commissione Antimafia i protagonisti di quei buchi neri (compresi i responsabili del governo Amato che all’epoca reggeva il paese) e pretendere una spiegazione di quel che accadde quel giorno, e soprattutto prima di quel giorno, e dell’eventuale responsabilità politica di chi autorizzò la trattativa con la mafia e la mancata perquisizione del covo. E’ finita, quella trattativa, oppure dura ancora oggi? I parenti delle vittime delle stragi attendono verità e giustizia da 12 anni.

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