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Dicembre 2005
Vent'anni per lavare i panni sporchi
Manuela Mareso


Il 12 dicembre del 1985 una diciassettenne di Saponara, impiegata in una tintoria, veniva uccisa dalla mafia per aver trovato in una camicia da lavare un documento che non avrebbe dovuto leggere. A un anno dalla condanna in primo grado degli esecutori, le motivazioni della sentenza ancora non sono state rese note

Oggi Graziella avrebbe 37 anni. Forse un marito e dei bambini. Di sicuro una famiglia numerosa – i genitori, quattro sorelle e tre fratelli con i rispettivi coniugi e figli – cui dedicarsi. L’aveva sempre fatto, del resto: poco più che adolescente, era sempre attenta alle esigenze dei suoi cari; per la nipotina di tre mesi, poi, aveva un debole. Appena poteva, libera dal lavoro, si occupava di lei e le confezionava piccoli indumenti. Come quel maglioncino di lana che ancora oggi suo fratello Piero, padre di quella bambina oggi ventenne, conserva. È rimasto a metà, perché una sera che avrebbe dovuto essere come tante altre, trascorsa in famiglia a sferruzzare dopo una giornata di lavoro in tintoria, Graziella non fece più ritorno a casa.

La camicia dell’ingegnere. Originaria di Saponara (Me), Graziella scomparve a Villafranca Tirrena, dopo essere uscita dal lavoro, la sera del 12 dicembre 1985. Il suo cadavere, barbaramente sfigurato da cinque colpi di fucile a canna mozza, sarebbe stato ritrovato due giorni dopo a Forte Campone, sui monti Peloritani, al confine tra Villafranca e Messina.
Dopo anni di indagini depistate, processi aggiustati e disinteresse da parte dei grandi organi di informazione, l’11 dicembre 2004 (a diciannove anni dall’accaduto) la Corte di Assise di Messina ha finalmente emesso una sentenza contro i due esecutori dell’assassinio, Gerlando Alberti jr. e Giovanni Sutera (condannati all’ergastolo), e contro Agata Cannistrà e Franca Federico, rispettivamente collega e titolare della lavanderia presso cui Graziella lavorava (condannate a due anni per favoreggiamento).
All’epoca dell’omicidio la lavanderia “La Regina” era frequentata da due palermitani presentatisi come l’ingegner Toni Cannata e il geometra Gianni Lombardo. In realtà si trattava, appunto, di Gerlando Alberti junior (nipote di Gerlando Alberti senior, detto “’u paccarè”, braccio destro di Pippo Calò) e Giovanni Sutera, due latitanti ricercati per associazione mafiosa e narcotraffico internazionale, da tre anni nascosti nei pressi di Villafranca. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Graziella è stata uccisa perché, il 9 dicembre, aveva trovato in una camicia, lasciata in tintoria a lavare, un documento dal quale si capiva che l’ingegner Cannata aveva un’altra identità. Di quel documento, strappatole dalle mani dalla collega Agata Cannistrà, a cui la ragazza l’aveva fatto vedere, non si è più avuta traccia.


Non tutto è chiarito. «Quello che ci interessa è sì che siano condannati i colpevoli, ma soprattutto che si porti alla luce il fitto reticolo di connivenze a livello istituzionale che si nasconde dietro questo omicidio». A parlare è Nadia Furnari, presidente dell’associazione antimafia “Rita Atria”, che da dieci anni, in collaborazione con il Comitato per la pace e il disarmo unilaterale di Messina e grazie alla dedizione e alla tenacia dell’avvocato di parte civile Fabio Repici, sostiene la famiglia Campagna nella ricerca di giustizia.
La vicenda di Graziella – sconcertante quando si pensa quale prezzo la mafia costringa a pagare persone anche del tutto estranee agli affari dell’organizzazione – presenta molti nodi irrisolti. Certo il suo omicidio avvenne in un periodo caldissimo della storia di Cosa Nostra, e poteva apparire marginale: erano gli anni delle stragi e degli omicidi eccellenti (proprio nell’estate del 1985 erano stati uccisi Montana e Cassarà, vedi «Narcomafie» 7-8/2005, nda.), e si era alla vigilia del maxiprocesso; Messina, poi, era da sempre considerata – a torto – periferia di mafia e non luogo strategico per i traffici di armi e droga e per il riciclaggio di denaro sporco.
Ma la cronaca dei vent’anni in cui si è cercata la verità per l’omicidio Campagna rivela fatti di una gravità inaudita. A partire dagli ostacoli posti al fratello Piero, carabiniere all’epoca ventiduenne, mobilitatosi immediatamente per far luce sull’accaduto e redarguito dai suoi superiori per aver collaborato con i poliziotti della Squadra Mobile.

La verità era a un passo. «Che ci fossero delle collusioni a livello istituzionale – ci racconta Piero – fu subito chiaro. Contrariamente alla prassi istituzionale in casi analoghi, la Magistratura tolse la conduzione delle indagini alla Polizia, giunta per prima sul luogo del delitto e che aveva denunciato Gerlando Alberti jr. e Giovanni Sutera già un mese dopo l’omicidio di mia sorella, e la delegò al Nucleo Operativo dei Carabinieri di Messina». Questi solo il 3 settembre del 1986, 8 mesi dopo rispetto alla Polizia, e dopo molte resistenze, tra cui un tentato depistaggio per omicidio passionale, arrivarono a redigere un rapporto contro Alberti e Sutera. Fino ad allora i due erano comparsi nei loro verbali solo a seguito di un fermo avvenuto quattro giorni prima dell’omicidio di Graziella: l’8 dicembre 1985 vennero infatti fermati a bordo di una Fiat Ritmo rubata a Milano e il Cannata-Alberti, consegnando i documenti (falsi), cercò insistentemente di tranquillizzare i militari dicendo di essere amico del loro superiore, il maresciallo Carmelo Giardina. Approfittando poi di una distrazione dei due Carabinieri, Alberti e Sutera fuggirono.

Infiltrati nell’Arma
. «Pochi giorni dopo l’omicidio di mia sorella – racconta ancora Piero Campagna –, fui invitato da alcuni poliziotti della Squadra mobile a fornire ulteriori dettagli. L’auto della Polizia su cui salii venne fermata dai Carabinieri e sorse una colluttazione giustificata con l’accusa di imprecisate ingerenze investigative. Fui poi convocato in caserma dal maresciallo Giardina e redarguito per aver fornito notizie alla Polizia, e in seguito mandato dal comandante del Reparto operativo, il maggiore Antonio Fortunato, che mi intimò di riferire ogni dettaglio a lui solo o al maresciallo Giardina. Nella stanza era presente anche un’altra persona, Giuseppe Donia, che mi venne presentata dal maggiore come proprio collega e che mi rassicurò sullo scrupolo che avrebbero adottato nelle indagini. Qualche giorno dopo, Donia mi confidò di essersi occupato personalmente della perizia balistica». Anni dopo Piero Campagna avrebbe incontrato Giuseppe Donia a Falcone, un paese in provincia di Messina, e avrebbe appreso dai Carabinieri del luogo che in realtà non era affatto un carabiniere, ma si spacciava come tale, e che era molto vicino a Gerlando Alberti.
Il mandato di cattura, a seguito del rapporto dei Carabinieri del 3 settembre 1986, venne spiccato il 18 marzo dell’anno dopo dal giudice istruttore Pasquale Rossi, che rinviò a giudizio Alberti e Sutera il 1° marzo 1988. Ma il 13 febbraio 1990 il pm Giuseppe Gambino chiese e ottenne (28 marzo) dal giudice istruttore Marcello Mondello il “non doversi procedere” nei confronti dei due imputati per non aver commesso il fatto: il movente dell’agendina-documento (tirato fuori per la prima volta a un mese dall’omicidio dal barbiere di fiducia dell’Alberti – che vide sussultare il latitante quando si rese conto di aver dimenticato il documento nella camicia – e poi rinforzato dal ricordo della madre di Graziella depositato quasi quattro anni dopo, nel maggio del 1989, che raccontò che il 9 dicembre la figlia le disse: «Sai mamma che l’ingegner Cannata non è lui?») viene giudicato troppo debole.

Caso riaperto, grazie alla tv
. Da allora il silenzio, fino al 1996, quando in una puntata della trasmissione televisiva Chi l’ha visto? Indagine viene letta la richiesta di un’anonima professoressa di tornare a indagare sull’omicidio. Contemporaneamente, grandi e piccoli pentiti della mafia messinese iniziano a dire ciò che sanno sull’omicidio Campagna. Nove di loro fanno i nomi di Gerlando Alberti jr. e Giovanni Sutera, e spiegano l’agghiacciante contesto mafioso in cui era stato deciso l’assassinio. «Dal 1992 al 1996 – dice l’avvocato Repici – i collaboratori di giustizia interrogati a Messina erano stati un centinaio. A nessun magistrato era venuto in mente di chiedere cosa sapessero dell’assassinio di Graziella, che viste le modalità – cinque colpi di fucile a distanza ravvicinata – era chiaramente di stampo mafioso».
Furono queste testimonianze dei pentiti a far sì che la Procura di Messina richiedesse il 24 settembre 1996 la revoca della sentenza di proscioglimento e la riapertura delle indagini preliminari. Il tribunale di Messina riaprì il caso a dicembre. In realtà il processo avrebbe potuto ricominciare due anni prima: già nel marzo del 1994 il pentito messinese Salvatore Giorgianni aveva riferito al pm di Reggio Calabria Francesco Mollace sia le responsabilità di Gerlando Alberti, sia l’intervento di Santo Sfameni, un grande boss messinese con contatti in ambienti massonici, per addomesticare l’esito del primo processo, che si concluse con il proscioglimento degli imputati.
Ancora proroghe? Ma anche nella seconda metà degli anni Novanta molti elementi facevano intravedere la rete di complicità e protezioni che istituzioni dello Stato, imprenditori e politici avevano tessuto attorno all’omicidio. Sollecitato dall’accurato e indefesso lavoro dell’avvocato Repici, nel 2000 Nichi Vendola presentò un’interrogazione parlamentare. Nel 2001 Carlo Lucarelli, con una puntata dei suoi Misteri d’Italia, riportò i riflettori su un omicidio ingiustamente dimenticato.
Oggi finalmente si è arrivati a una sentenza di primo grado che l’11 dicembre 2004 ha condannato gli imputati, ma le ombre sembrano non essere svanite del tutto: a un anno dal suo pronunciamento, non è stato ancora possibile averne le motivazioni (su queste «Narcomafie» tornerà appena saranno disponibili). «Il termine di 90 giorni per il deposito delle motivazioni, già prorogato una volta – spiega Fabio Repici – in realtà non è perentorio. Mi hanno inoltre informato che il giudice a latere incaricato della scrittura è sovraccarico di lavoro. Certo è curioso che del processo Dell’Utri-Cinà, la cui sentenza era stata pronunciata negli stessi giorni – e si trattava di un processo complicatissimo – le motivazioni si siano avute già a luglio».

«Mai arrendersi». Lo scorso 12 dicembre a Forte Campone si sono ricordati i vent’anni dell’omicidio. Alla presenza di coloro che in questi anni si sono battuti per la ricerca della verità (in primis l’associazione antimafia “Rita Atria”, la cui presidente Nadia Furnari, proprio a seguito della trasmissione Chi l’ha visto? Indagine, contattò Piero Campagna offrendogli appoggio e ridando nuova forza alla soluzione del caso coinvolgendo l’avvocato Repici, all’epoca giovane praticante), è stata inaugurata una lapide voluta dai familiari di Graziella e da alcuni amici del fratello. Piero in questi vent’anni si è battuto strenuamente per portare giustizia all’omicidio della sorella. «Sono stati anni terribili, di abbandono e solitudine inimmaginabili. Nei primi 11 anni ho visto uccidere mia sorella due volte: dai suoi assassini e poi dalla Giustizia, che oggi sembra invece aver imboccato, con la sentenza di primo grado, una strada nuova. Continuare a fare il carabiniere in queste condizioni è stato durissimo, ma non ho mai voluto mollare, perché credo in questo mestiere svolto da tanta brava gente che sacrifica la propria vita. Le mele marce ci sono, ma non ci si può arrendere»





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