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Marzo 2006
Il reclutamento di infermieri extracomunitari
Corsia d'emergenza
di Elena Ciccarello



Un sistema sanitario a corto di fondi che si rifornisce da imprenditori con
pochi scrupoli. Una normativa che lascia spazio ai ricatti. A farne le spese sono gli infermieri stranieri, nuovo anello debole delle corsie

In Italia mancano gli infermieri, e Torino e Piemonte non fanno eccezione. Le stime dell’ultimo rapporto Ires parlano di un buco di 40 mila unità a livello nazionale. Per rispondere a questa “emergenza”, la legge Bossi-Fini ha esteso agli infermieri extracomunitari le regole d’ingresso riservate a calciatori, studiosi e gente di spettacolo, ma ne ha vincolato la permanenza sul territorio al datore di lavoro. Ne è derivato un mercato di braccia specializzate cui attinge, senza scrupoli, anche il sistema sanitario nazionale.
Questo il business: in un clima d’urgenza e di tagli, in cui i direttori sanitari badano più alle spese che alla scelta dei loro fornitori, alcuni imprenditori si sono specializzati nel reclutamento di personale all’estero e vendono “pacchetti di infermieri” ad aziende pubbliche e private, per un giro d’affari milionario. «L’impresario arriva nelle aziende sanitarie italiane con il suo catalogo, mostra le foto delle infermiere, con tanto di dati sulla loro nazionalità e specializzazione, contratta il numero e il prezzo, e poi partecipa insieme ad altri alla gara d’appalto», racconta l’avvocato Dario Gamba, consulente legale del Collegio degli infermieri di Torino.

La soluzione più comoda. Maria Adriana Bernardotti, che per l’Ires Cgil ha realizzato una ricerca sulla condizione in Italia degli infermieri non comunitari, ci spiega che «chi non ha cittadinanza italiana non può partecipare ai concorsi della sanità pubblica, e ciò autorizza le Asl ad appaltare interi reparti e servizi a cooperative o a fornirsi di personale in affitto presso le agenzie interinali». Le aziende sanitarie, infatti, anziché assumere direttamente gli infermieri stranieri con contratti a tempo determinato, come consentito dalla legge, si rivolgono invece, per comodità e risparmio, ad agenzie ex interinali (oggi chiamate “di somministrazione di lavoro”) e, ancora più spesso, a società cooperative, cui delegano la gestione di interi reparti, o chiedono il semplice affitto di personale. Queste ultime infatti, grazie alla loro particolare natura fiscale, riescono a proporre i prezzi più bassi: il costo della prestazione infermieristica scende così dai soliti 35/40 euro all’ora degli infermieri di ruolo ai 26/27 euro richiesti dalla cooperativa (dei quali solo 10, e si tratta dei casi migliori, vanno all’infermiere extracomunitario). Così la sanità spende mediamente 10/15 euro in meno all’ora per ogni lavoratore, e le società ne guadagnano migliaia al giorno. Tutto a scapito degli infermieri e del servizio.
Eppure non si tratta solo di risparmio, «c’è una forma di pigrizia, una certa indolenza burocratica e insensibilità al problema che spinge a rivolgersi al “caporale” che fornisce il pacchetto completo di infermieri e garantisce le sostituzioni», dice l’avvocato Gamba. Quando non si tratta di cinismo, come nel caso di direttori sanitari capaci di dire che preferiscono le rumene perchè «non mi restano incinte». Che poi i tassi di aborto tra le infermiere straniere siano altissimi, spesso proprio per la paura di perdere il lavoro, è un altro capitolo su cui varrebbe la pena ritornare.

Sono possibili ricatti “legali”?
Quello degli infermieri è un mercato ormai fuori controllo in cui, accanto a soggetti che rispettano la norma, proliferano società molto meno serie. «Chi fornisce manodopera infermieristica senza l’autorizzazione ministeriale vìola la legge. Ma se guardiamo alla realtà dei fatti, scopriamo che molti ingaggi infermieristici oggi ricadono proprio in questa forma di somministrazione illecita», continua Gamba. Viene da chiedersi come ciò sia possibile. «Le sanzioni non scattano perché la sensazione è che si andrebbe a colpire un intero sistema, ormai sedimentato su queste forme più o meno legittime di caporalato», spiega ancora l’avvocato.
Le agenzie e cooperative per il reclutamento di personale hanno aperto filiali all’estero, selezionano le domande, preparano i documenti, provvedono al trasporto dei lavoratori nonchè alla loro sistemazione una volta arrivati. Spesso questi passaggi vanno oliati con il denaro: «Alcuni imprenditori, che avevano aperto proprie sedi in Romania per reclutare personale, ci hanno segnalato di essere stati minacciati da altre società presenti sul territorio, solite chiedere la “stecca” per portare personale in Italia», denuncia Pierino Crema, segretario provinciale per la funzione pubblica della Cgil di Torino. Nelle pratiche di reclutamento il confine tra lecito e illecito appare molto sottile. «Posso capire che una società che anticipi i soldi per il viaggio dei suoi dipendenti poi ne chieda la restituzione, ma quando si parla di 3/4.000 euro, allora è chiaro che si tratta di forme di tangenti», continua Crema.
Vessazioni e speculazioni non finiscono neppure con l’arrivo in Italia, alcuni infermieri raccontano infatti di essere stati privati dei documenti. Eppure la paura di perdere il permesso di soggiorno e la prospettiva del guadagno spegne le eventuali proteste. «Il caporale ha un potere enorme sull’infermiere, poiché gestisce il suo lavoro e la sua possibilità di restare in Italia. Così il contratto d’affitto e l’assunzione, documenti perfettamente legali ma indispensabili per ottenere il permesso di soggiorno, nelle mani del datore di lavoro possono diventare strumenti di sfruttamento» dice Gamba, che aggiunge: «Spesso accanto ai “ricatti legali” ne sorgono altri del tutto illeciti, come la sottoscrizione di impegni a pagare 5/6.000 euro in caso di recesso dall’impiego. Per cui capita che alcuni infermieri, trovato un lavoro meglio pagato, non abbandonino il loro caporale convinti di aver firmato un atto vincolante».

La paura mette a tacere
. Abdel Rahim Belgaid, infermiere marocchino di 42 anni, che lavorava all’ospedale Molinette di Torino per conto della cooperativa “Vita serena”, oggi non cammina più perché ha subito una grave lesione spinale. La sera del 12 dicembre scorso era andato a reclamare dei pagamenti arretrati al suo datore di lavoro, Michele Arcuri, ma dall’edificio è uscito in barella. La sua storia, riportata dai giornali, ha aperto uno squarcio su un mondo difficile da investigare: «È stato difficilissimo intervistare gli infermieri stranieri: sono rimasta veramente impressionata, è stata la prima volta in tanti anni di studi sull’immigrazione. Questa difficoltà è una spia delle condizioni di ricattabilità e di paura in cui vivono questi lavoratori», dice la ricercatrice Adriana Bernardotti.
C’è molta riluttanza a denunciare, e gli infermieri più consapevoli dei propri diritti tendono a risolvere la loro situazione privatamente, magari riuscendo ad ottenere migliori condizioni lavorative al costo del proprio silenzio. Molti hanno paura, o semplicemente non hanno coscienza di essere sfruttati. «Mi è capitato di accompagnare personalmente dalle autorità giudiziarie degli infermieri che avevano raccontato di storie terribili, e vederli ammutoliti dal terrore. Talvolta c’era il loro caporale ad aspettarli all’uscita», dice l’avvocato Gamba. C’è la storia paradossale di un’infermiera extracomunitaria che si era resa disponibile, purché ne fosse garantito l’anonimato, a testimoniare la propria condizione di sfruttamento davanti alle telecamere. Il servizio era stato trasmesso su Rai tre all’interno della trasmissione “Shukran”. Ma davanti alle forze di polizia la donna aveva poi ritrattato tutto, tra le lacrime. «Ci sono dei pettegolezzi in merito, che sostengono si sia fidanzata con un caporale e che adesso lavori in quel giro. Il dato certo è che sempre più stranieri stanno diventando a loro volta intermediari, favoriti anche dalla conoscenza della lingua. Tornano in patria e raccontano ai connazionali i vantaggi di venire a lavorare in Italia, facendosi strumenti di reclutamento», conclude il legale.

Razzismo in corsia. A fare le spese di questa situazione, naturalmente, sono anche i pazienti. Non sempre infatti gli infermieri extracomunitari hanno una preparazione adeguata, né conoscono bene la nostra lingua. Il loro ruolo tende a ridursi a quello di assistenti. «Spesso si pongono in maniera subalterna, e qualcuno dei nostri può essere gratificato dall’avere degli aiutanti disponibili per le mansioni meno professionali», dice Michele Piccoli, ex presidente del Collegio degli infermieri di Torino. Il rapporto con i colleghi italiani non è dei più facili. «Alcuni di loro mostrano un buonismo peloso rapportandosi agli stranieri come a gente incapace. Li lasciano seduti a far niente» continua Piccoli. «Il razzismo che talvolta si manifesta nei reparti è frutto di una lotta tra poveri, perché le assunzioni di stranieri hanno effetti devastanti sul sistema contrattuale». Capita infatti che lavorino fianco a fianco persone retribuite 1.500 euro al mese e altre, straniere, che ne guadagnano, per lo stesso lavoro, 900, e che le aziende sanitarie, per contenere le spese, tendano sempre più ad esternalizzare i servizi, favorendo così la privatizzazione e la precarizzazione del settore. Se ne lamentano i professionisti italiani, ma anche le agenzie ex interinali, le uniche che per legge possono intermediare lavoro e che sono costrette a rispettare le condizioni contrattuali nazionali di settore, ma che si vedono frequentemente rimpiazzate dalle cooperative.

Laureati pendolari
. Eppure il personale straniero potrebbe tradursi in una preziosa risorsa per le nostre strutture, per il suo potenziale di mediazione culturale. «Pensi ad una infermiera che venga dal Maghreb e si sia laureata in Italia: avrebbe un’ottima preparazione, spendibile sia da noi che nel suo Paese, conoscerebbe entrambe le lingue e culture: una straordinaria possibilità di mediazione senza alcuna spesa aggiuntiva», fa notare Piccoli. «Trovo paradossale che circa il 10% degli iscritti ai nostri corsi universitari siano extracomunitari che, finiti gli studi, sono costretti a tornare nel loro Paese d’origine e passare per gli intermediari per tornare a lavorare in Italia. La nostra Università, i nostri contribuenti pagano l’istruzione di persone che poi diventano strumenti di profitto per i “caporali” della sanità», si sfoga Piccoli, che ha in mente un progetto: «Una collaborazione tra l’Università di Sibiu e quella di Torino, che preveda il riconoscimento in Italia del titolo di studio straniero, periodi di stage e corsi di lingua italiana, di modo che ci sia uno scambio solidale e trasparente attraverso le istituzioni pubbliche e nessuna intermediazione privata». I vantaggi sarebbero reciproci: «Noi avremmo personale adeguatamente preparato, e i giovani che volessero rientrare nel Paese d’origine porterebbero con loro professionalità e coscienza dei propri diritti».

Il Piemonte fa il primo passo
. Chiediamo se c’è una specificità piemontese sulla questione, e Gamba ci risponde positivamente: «Nella nostra Regione c’è una volontà particolare di reagire e risolvere il problema. Non a caso è l’unica il cui assessore alla sanità, Mario Valpreda, si è attivato firmando, lo scorso 22 dicembre, un protocollo con le parti sociali per “il superamento delle forme improprie di reclutamento di personale”». Lo scopo immediato è infatti sollecitare le Asl ad assumere direttamente gli infermieri attraverso contratti di diritto privato a tempo determinato. Ma è solo l’inizio, e il segretario Cgil Pierino Crema si dice convinto che l’assunzione nel pubblico impiego, anche di personale senza cittadinanza italiana, sia una strada obbligata: «È una politica già utilizzata all’estero. Le figure dei mediatori culturali non possono essere occasionali, soprattutto nei servizi in cui più alta è l’utenza straniera, come la sanità».
Ma non esiste alcuna strategia nazionale per la risoluzione del problema, relegato alle realtà locali; del resto il giro di denaro che sta dietro questi problemi, e l’enormità del sistema coinvolto, è tale da allontanare la possibilità di soluzioni a breve scadenza.






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