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Gennaio 2006
Le ganasce dell'Onu

di Lucia Vastano



Dallo scorso dicembre le Nazioni Unite hanno un’arma in più contro la corruzione: la “Convenzione di Merida”, primo strumento globale per coadiuvare gli Stati nella lotta contro il fenomeno

Pedro Alvarez conosce molto bene il significato della parola tangente. Per lui è l’arma con la quale “el diablo”, il diavolo, ha distrutto la sua vita per sempre. Un diavolo che ha nome e cognome, quelli del funzionario del suo villaggio, nello Yucatan, che gli ha chiesto una tangente per far arrivare la corrente elettrica fino a casa sua e mettere così in moto la pompa per irrigare i suoi campi. All’inizio si era rifiutato di pagare, sperando che prima o poi quella firma arrivasse ugualmente. Ma il tempo passava, e ben presto non gli rimasero alternative: o si decideva a sborsare il denaro, o tutto sarebbe andato in rovina. Nel villaggio altri erano nelle medesime condizioni. Sempre più capifamiglia avevano deciso di accettare la proposta. In fondo, meglio pagare un funzionario corrotto che soccombere. Così sul tavolo del funzionario arrivò nuovamente la richiesta di Pedro Alvarez. Ma quel timbro gli costò più di quanto poteva permettersi. Fu l’inizio della fine.

Miliardi di “favori”, nessun diritto. Arrivò a chiedere prestiti agli usurai, poi fu costretto a vendere la terra. Da allora sono passati dieci anni. Pedro non ha più niente, neppure la famiglia, che ha lasciato per la vergogna di non riuscire più a mantenerla. È un ubriacone che chiede l’elemosina all’uscio della cattedrale nello zocalo, la piazza principale di Merida. Non entra più nemmeno nella chiesa, perché “el diablo” in persona lo ha corrotto. «Mi ha marchiato a fuoco per sempre», dice mentre allunga la mano per elemosinare.
Non basta offrire qualche pesetas per aiutare la gente come lui. Non basta tutta la generosità del mondo per mettere fine alla piaga della corruzione. L’Onu ha stimato che ogni anno vengono pagate tangenti per circa 840 miliardi di euro per ottenere “favori” di diverso tipo, spesso soltanto per avere accesso a beni primari a cui si ha diritto. «La corruzione, distogliendo risorse che andrebbero destinate allo sviluppo, minando la capacità dei Governi di garantire i servizi essenziali, alimentando la disuguaglianza e l’ingiustizia e scoraggiando gli investimenti e gli aiuti esteri, colpisce soprattutto le fasce più povere», ha affermato Kofi Annan, segretario generale delle Nazioni Unite.

Un storico accordo. È per questo che, proprio vicino a quella cattedrale dove Pedro consuma la sua esistenza, il 9 dicembre 2003 l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc) ha presentato ai 129 membri presenti la “Convenzione contro la corruzione”, firmata immediatamente da 96 Stati (tra cui l’Italia, con la firma apposta dal ministro della Giustizia Roberto Castelli), mentre il Kenya l’ha anche ratificata. «Si tratta di un avvenimento storico: in 50 anni di vita delle Nazioni Unite non era mai accaduto che in occasione dell’apertura alla firma un Paese consegnasse anche gli strumenti di ratifica. Questa è ovviamente una chiara manifestazione dell’impegno considerevole del Kenya, ma soprattutto testimonia la fiducia che questo nuovo strumento a disposizione della Comunità internazionale possa realmente essere incisivo», ha dichiarato Antonio Maria Costa, direttore esecutivo dell’Unodc.
Il 14 dicembre scorso, con la ratifica della 30a nazione (l’Ecuador), come previsto nel suo testo, la “Convenzione di Merida” è entrata in vigore. Un successo per le Nazioni Unite e una rivincita, anche se tardiva, per i milioni di Pedro sui loro “diablos”. Se la giustizia espressa dalla Convenzione non rimarrà sulla carta, i “diavoli” avranno una vita sempre più difficile.

Prima tappa: Palermo. Ma quali armi ha messo a punto l’Unodc per combattere la corruzione? «La Convenzione – dice Costa – va inserita nel contesto più generale della lotta alla criminalità ed ha una sua storia alle spalle che è bene ricordare. Nel campo della prevenzione del crimine e della giustizia era già entrata in vigore la “Convenzione contro il Crimine Organizzato Transnazionale”. Negoziata a Vienna dal 1998 al 2000 e aperta alla firma a Palermo nel dicembre di quest’ultimo anno, tale convenzione già conteneva articoli che fanno riferimento al problema della corruzione. A Palermo si sottolineò l’importanza di avviare una concreta discussione mirata all’elaborazione di una distinta e specifica Convenzione delle Nazioni Unite contro la Corruzione. Quali sono ora gli elementi di novità? Io la definisco una convenzione dalle “ganasce potenti”. Questa convenzione vincola i Paesi contraenti ad armonizzare i loro dettati legislativi a quanto da essa previsto. Per capire fino a che punto sia imperativo l’impegno richiesto ai Governi è sufficiente leggere i 72 articoli della Convenzione e ci si imbatte frequentemente in disposti quali: “Governments shall do, shall engage, shall commit themselves” (i Governi devono fare, devono impegnarsi, nda.), mentre solo per un numero limitato di articoli i Paesi sono semplicemente invitati, o si richiede loro soltanto di “compiere i loro migliori sforzi per...”. Ora che è entrata in vigore la Convenzione, le Nazioni Unite – in particolare gli organi di Vienna e l’Unodc –, che svolgeranno un’azione di verifica della sua applicazione, potranno chiedere ai Paesi contraenti l’adempimento degli obblighi previsti».

Scavalcare il segreto bancario. «La Convenzione – ha affermato Costa – punta il dito su uno degli elementi tipici della corruzione: l’interazione privato-pubblico. Un esempio: il funzionario pubblico che autorizza la costruzione di una strada e impone una tangente alla ditta costruttrice. Ma la Convenzione considera in modo rilevante anche l’aspetto prettamente “privato” del fenomeno, dal momento che l’analisi statistica dei reati di corruzione dimostra come questi assumano un particolare rilievo e nuocciano ad interessi fondamentali anche quando vengano esercitati completamente da parte di entità private. È questo il caso di quelle vicende, come quello di Enron, in cui vengono violati i diritti dell’azienda o dell’azionista e dell’interesse generale al mantenimento di un corretto sistema di concorrenza. Non ci devono essere zone di ombra. I principi sanciti devono riguardare tutta la Comunità internazionale anche quando siano coinvolte organizzazioni come le stesse Nazioni Unite o la Banca Mondiale. La Convenzione pone l’accento sull’aspetto specifico delle rogatorie, dei mandati di cattura e dell’estradizione.
A livello di cooperazione internazionale è fondamentale aver scavalcato quello che fino ad oggi era un grande ostacolo: il segreto bancario. La Convenzione sancisce in due articoli, uno sulla criminalizzazione l’altro sulla cooperazione internazionale, che i Paesi e le loro istituzioni finanziarie non possono più appellarsi al segreto bancario per impedire l’impiego di strumenti giudiziari quali rogatorie, mandati di arresto ed estradizione. Anche in Europa dovranno cambiare molte cose, soprattutto in quei Paesi in cui il segreto bancario è tutt’oggi considerato invalicabile».

Buoni propositi solo sulla carta? Dei 129 Stati firmatari ad oggi solo 30 hanno ratificato la Convenzione sulla corruzione. Tra quelli più industrializzati, solo Francia e Sud Africa. Che cosa significa ciò? Rimarranno, quelle scritte nelle pagine di Merida, solo delle belle parole?
«Per quanto riguarda l’Europa e gli Stati Uniti, le prescrizioni della Convenzione sono già contenute nei Codici nazionali. Per questo, il fatto che ancora non sia stata ratificata potrebbe non costituire un problema – sostiene Maria Teresa Brassiolo, presidente di Transparency International Italia, un’associazione che si batte contro la corruzione –. Ma non è certo un messaggio positivo che viene lanciato a livello internazionale. Il rischio che gli auspici rimangano buoni propositi sulla carta esiste. Io guardo con più convinzione la “Convenzione contro la corruzione” siglata dall’Ocse nel 1997. Essa rappresenta una tappa sicuramente epocale che ha cambiato radicalmente l’approccio al problema, soprattutto perché si è data delle regole di controllo annuale che vengono rispettate. È con questa Convenzione che si è stabilito a livello internazionale che le società che commettono atti di corruzione ne sono responsabili e quindi sono perseguibili. Non è un passo da poco visto che nel diritto romano, a differenza di quello anglosassone, “la società non può delinquere”. Spero che la Convenzione di Merida venga ratificata anche dall’Italia perché è fondamentale che siano lanciati messaggi forti per cambiare la cultura della corruzione nel nostro Paese. Le leggi da sole non bastano se mancano l’educazione e la percezione che la corruzione non è un atto di furbizia, ma un reato, un atto di delinquenza che castra lo sviluppo. A volte la stampa contribuisce a creare questa cultura errata. Per esempio, usando il termine “furbetti del quartiere” e non il più opportuno “disonesti del quartiere”. Chi ruba, truffa, corrompe non può essere rappresentato come uno più sveglio degli altri. Senza l’educazione alla legalità, le leggi non servono a nulla. Educazione significa anche che tutti i cittadini abbiano modo di venire informati sui loro diritti, sulle opportunità a loro offerte, senza discriminazione alcuna in modo che vi possa anche essere una leale concorrenza.
Non vi deve essere da parte di alcuni un accesso privilegiato alle informazioni. Lavorare sull’educazione richiede tempi lunghi, ma porta a successi ben più profondi e radicali. Per questo i messaggi lanciati a livello istituzionale sono importanti. In questo senso la ratifica da parte dell’Italia della Convenzione di Merida è un momento di crescita per il nostro Paese ed è pertanto auspicabile che venga attuata in tempi brevi».

 






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