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Gennaio 2006
Dossier: Tratta di esseri umani

Più tutela per le vittime
Intervista a Elsa Valeria Mignone di Manuela Mareso

Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Lecce, Elsa Valeria Mignone si occupa di tratta da quando il fenomeno non era ancora individuato specificamente come tale. Erano gli anni Novanta, quando le coste leccesi vennero prese d’assalto dagli scafi albanesi: all’epoca si parlava di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. «La tratta è stato all’inizio un incidente di percorso, ci si limitava a prendere cognizione e ad assistere», ci dice. Il distretto leccese, quello più a est d’Italia, resta ancora oggi un osservatorio privilegiato per la conoscenza del fenomeno migratorio e dunque della tratta e dei crimini accessori. Sono inoltre molto significativi i dati della provincia di Lecce relativi alle richieste ex art. 18 del Testo Unico sull’immigrazione, che prevede il permesso di soggiorno per protezione sociale (vedi box p. 18, ndr.): 222 fino al 2002, circa il 15% del dato nazionale.

Dottoressa Mignone, quali erano le caratteristiche dei primi sbarchi?
Inizialmente gli sbarchi nel Salento avvenivano prevalentemente a sud di Brindisi, fino al capo di Santa Maria di Leuca, e non al Nord, nell’area compresa tra Brindisi e Bari perché con lo smuggling (il contrabbando di persone, ndr.) non si voleva interferire negli altri traffici della criminalità organizzata: c’era quindi un chiaro accordo tra gruppi criminali. Tutto questo bastava a dimostrare che il fenomeno dell’immigrazione era un fenomeno di criminalità organizzata, indipendentemente dal fatto che questo dato riuscisse, o riesca, ad emergere processualmente.
Dunque la vittima di tratta è vittima di criminalità organizzata?
Certamente, ed è questa la premessa fondamentale per comprendere qual è la posizione processuale di queste vittime. Con questo intendo dire che non è solo il rapporto della vittima di tratta e del suo sfruttatore che va considerato.
Alla vittima del traffico, proprio per la sua storia di particolare violenza, psicologica, ma nella maggior parte dei casi anche fisica, deve inoltre essere assicurata piena dignità processuale in senso lato sin dal primo momento dell’approccio con gli investigatori, che devono avere già una professionalità. Ad operare dovrebbero essere squadre appositamente formate, che sappiano approcciare la vittima e che non si trovino a operare casualmente. Anche l’agente che intercetta per strada la vittima dovrebbe avere sempre una squadra di riferimento.
Il rapporto recentemente redatto dal Gruppo esperti della Commissione europea segnala come estremamente problematica la distinzione tra “vittime innocenti” e “vittime colpevoli” (cioè consapevoli del fatto che sarebbero state sfruttate), specie in relazione alla tratta per scopi di prostituzione forzata. A lei risulta che questa distinzione, dichiarata dal Gruppo “falsa”, rappresenti un problema per la tutela delle vittime?
Assolutamente sì, anche perché dal mio osservatorio registro un’involuzione, un deterioramento complessivo dell’importanza della posizione processuale della vittima della tratta. I processi che noi abbiamo instaurato inizialmente si fondavano sul concetto di schiavitù (usavamo gli artt. 600 e 602 del codice penale: riduzione e mantenimento in schiavitù). Abbiamo raccolto testimonianze di ragazze che venivano visionate come animali, guardate addirittura in bocca per controllare i denti. Non veniva lasciato loro nulla: i documenti anzitutto, ma anche vestiti e accessori erano forniti dai loro sfruttatori. Una condizione di assoggettamento totale. Inizialmente le parole di queste ragazze, un po’ per la novità, un po’ per l’efferatezza delle cose che raccontavano, venivano considerate con grande rispetto, che invece ho poi visto scemare successivamente. Un collega che doveva sostituirmi nel corso di una udienza dibattimentale mi disse: “Ma perché ti raccomandi tanto? In fondo è solo una prostituta”. Ho visto, insomma, crescere progressivamente una sorta di sfiducia e diffidenza.
Dovute a cosa?
Sostanzialmente all’interesse che la vittima avrebbe ad accedere ai programmi di protezione sociale previsti dall’art. 18. Il paragone che meglio spiega quanto sto rilevando è quello con la parola del collaboratore di giustizia: si parte già con una svalutazione della collaborazione della parte offesa, dovuta al sospetto da parte di chi giudica e da parte del magistrato inquirente che le dichiarazioni rilasciate siano strumentali (per la possibilità, appunto, di usufruire dei benefici previsti dall’articolo 18) e non genuine, perché le vittime, o presunte tali, potrebbero riproporre come proprie le vicende vissute da altre, magari sentite raccontare in seguito al trasferimento in luoghi in cui si trovano altre ragazze che hanno già riferito le proprie storie.
Sono rischi così comuni?
Personalmente mi sono capitati solo due casi, pochi ma sufficienti a dire che il rischio esiste. Ma il fatto che la parola della vittima possa essere screditata per l’interesse ad accedere all’articolo 18 deve essere assolutamente superato, tanto più che esiste oggi una giurisprudenza della Corte di Cassazione relativa ai collaboratori di giustizia, che può essere mutuata per quanto riguarda l’art. 18.
La Cassazione in sostanza dice che noi non possiamo dire che la parte offesa non è attendibile solo perché può essere incentivata alla collaborazione con la giustizia per usufruire di benefici premiali, perché questo costituisce da sempre una prassi della nostra organizzazione giudiziaria.
Dovrebbe essere provato un intento calunniatorio da parte della parte offesa, che dovrebbe dunque rispondere poi del reato di calunnia.
Eppure in diverse sentenze ho visto screditare la parola della parte offesa adducendo come motivazione gli incentivi offerti dall’art. 18.
In merito invece al rischio che la ragazza intercettata usi le storie sentite da altre ragazze?
Anche questa è una eventualità più che reale, ma a questo punto sta a noi fare in modo di evitare i contatti. A Montecatini, a spese del Comune, le ragazze intercettate venivano fatte alloggiare in alberghi e poi solo dopo le prime dichiarazioni in centri. Quindi la non genuinità può essere evitata se c’è una procedura attenta e rigorosa della raccolta delle informazioni.
La parola deve avere una sua credibilità e deve rimanere deposizione di parte offesa, che sebbene non possa essere equiparata a quella del testimone estraneo ai fatti, può tuttavia essere assunta come unica fonte di prova della colpevolezza del reo.
Cioè quella parola non deve essere posta sullo stesso piano di un chiamante in correità, ma di parte offesa. Quindi la posizione deve essere equiparata a quella del testimone di giustizia e non del collaboratore di giustizia.
Dunque, premesso che sia sottoposta con rigore a una indagine positiva sulla credibilità, la parola della vittima deve essere assunta da sola come fonte di prova della colpevolezza?
Sì, e senza richiedere riscontri esterni. Invece, purtroppo, nel corso del giudizio questi ci vengono richiesti. Mi è capitato il caso di un trafficante che aveva contattato la madre di una ragazza, dicendole di farlo chiamare. La ragazza denuncia il fatto, gli investigatori si muovono e quando trovano il soggetto, al momento del fermo, questi aveva effettivamente un cellulare con quel numero. La ragazza viene allora dichiarata attendibile, ma non doveva essere questa la motivazione della credibilità della parte offesa, altrimenti la sua posizione, da parte offesa, diventa chiamante in correità.
Quanto è importante il ruolo delle vittime per l’emersione del fenomeno tratta?
È indispensabile, e dunque deve esserlo anche la loro protezione. La tratta è un fenomeno difficilissimo da individuare, le ragazze si fermano negli appartamenti a volte per non più di sette giorni, c’è una invisibilità di fondo; oltretutto la vittima spesso ha sfiducia nelle Istituzioni, visto, per esempio, che le polizie albanese e turca un tempo prendevano parte al gioco, o agevolando i trafficanti o ostacolandoli solo al fine di subentrare nella gestione della vittima, o quanto meno di percepire una tangente. Una ragazza ci ha raccontato che i suoi trafficanti erano preoccupati della polizia, ma solo perché temevano di dover versare una tangente. E il grosso problema è che per le ragazze una polizia equivale all’altra. È stato proprio su questo punto che le ong si sono rivelate una risorsa insostituibile: il percorso sociale previsto dall’art. 18 costituisce un’azione di sostegno, crea un rapporto di fiducia non solo con le associazioni, ma anche con le Istituzioni e può diventare un incentivo per una collaborazione giudiziaria successiva.
Quali sono gli elementi da considerare per tutelare il più possibile la vittima di tratta, non solo per ragioni umanitarie, ma alla luce della sua preziosità ai fini del contrasto al fenomeno?
È importante che la prostituzione non abbia rilevanza penale in relazione a chi la pratica proprio perché è importante che la vittima rimanga parte offesa. Criminalizzare la prostituta vuol dire svilire le sue dichiarazioni e dunque non voler combattere lo sfruttamento della donna vittima di tratta. In questo senso dar seguito ad eventuali proposte che accreditino in ambito governativo la perseguibilità del reato di prostituzione su strada sarebbe deleterio per il lavoro della magistratura.
Occorrono poi ulteriori cautele processuali: ad esempio la notifica degli atti processuali dovrebbe essere senza indirizzo, in località note alle Forze dell’ordine.
Va poi riconosciuta l’inadeguatezza dell’incidente probatorio, allorchè consente il confronto diretto tra la vittima e il carnefice. In Belgio esiste una forma analoga all’incidente probatorio in cui è garantita la presenza del difensore dell’imputato, ma non dell’imputato stesso. Questo perché spesso la vittima non regge il confronto con il carnefice, e arriva a ritrattare la sua testimonianza. L’esame potrebbe avvenire con vetro a specchio o a distanza, in videoconferenza, già prevista per le persone ammesse a protezione ex articolo 147 bis delle disposizioni di attuazione. Questa previsione normativa dovrebbe essere allargata.
L’incidente probatorio ha poi la sua durata: in questo periodo è importante che i soggetti rimangano in stato di custodia cautelare, perché se escono trovano il modo di contattare le ragazze anche quando sono all’interno dei Centri.
Dovrebbe sempre essere assicurata alla vittima la costituzione di parte civile. Può sembrare scontato e per noi di Lecce lo è, ma non è così in tutta Italia. Il procuratore aggiunto di Venezia, nel corso di un incontro, faceva presente che in quel distretto raramente si assiste alla costituzione di parte civile della vittima. Questa a mio avviso non deve essere assistita da un avvocato d’ufficio, ma da uno di fiducia, magari ricorrendo all’espediente del gratuito patrocinio, deve cioè avere una tutela effettiva nel corso del dibattimento. A Lecce questo viene garantito dall’associazione che l’ha presa in carico.
Le vittime di tratta vanno dunque protette…
Alla vittima di tratta si devono applicare le norme per la protezione dei testimoni di giustizia, di cui al decreto legge 15 gennaio 91 numero 8.
Quante volte le vittime, soprattutto dell’Est, mi hanno riferito di aver paura perché i loro familiari erano stati minacciati! In tale frangente mi sono sentita tremendamente impotente. Effettivamente, allo stato delle cose, non si può far altro che informare la vittima su questa effettiva evenienza, poiché, per poter far fronte a tali situazioni, occorrerebbe una sostanziale e concreta strategia di collaborazione tra Stati. Finché le legislazioni tra i vari Stati, almeno a livello europeo, non saranno ravvicinate, noi potremo solo prendere atto di questo fenomeno senza poter intervenire in altro modo.
Cosa possono fare di più le Istituzioni?
La provincia di Lecce ultimamente si sta costituendo come parte civile per il danno subito dal fenomeno. Essere assistita da un ente pubblico locale per la vittima di tratta è importantissimo!
Ma dico di più: a mio avviso sarebbe auspicabile la costituzione in giudizio dell’avvocatura dello Stato, in rappresentanza o del ministero dell’Interno o del ministero delle Pari opportunità su cui grava in parte l’onere finanziario del programma di quell’articolo 18. Lo Stato deve schierarsi anche perché quel reato offende anche i suoi cittadini.






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