21 SETTEMBRE - 16° ANNIVERSARIO DELL'OMICIDIO DEL
"GIUDICE RAGAZZINO" ROSARIO LIVATINO

Grrr"La vita è tutta tessuta di ideali, di fini da conseguire che, puri o impuri, hanno un solo scopo: il raggiungimento del bene. Il bene per noi, per il prossimo; e da questi ideali, da questi fini derivano il senso buono e cattivo della vita. Esaminando tutto ciò che ci circonda, attraverso un processo logico e razionalistico, si perviene a una origine comune, a un essere di indefinibile natura che ha dato origine a tutto. Tutto l’universo, per quanto immenso, si identifica in questo essere. Dio è come un perno su cui gira tutto ciò che è. Tutto viene e ritorna a Dio, Dio è principio e fine. L'uomo nella sua follia peccaminosa pensa spesso al principio, ma molto raramente alla fine..."
Rosario Livatino



Dalla Chiesa ricorda Rosario Livatinno
di Nando Dalla Chiesa
Il prossimo settembre cadrà il decennale dell’assassinio di Rosario Livatino. Il giudice ragazzino morì il 21 di settembre, sulla superstrada che porta da Canicattì ad Agrigento. Colpito dai sicari che lo affiancarono in moto sulla sua Fiesta Ford rossa, fu braccato come un animale mentre scappava giù per il vallone assolato, fino a ricevere il colpo di grazia ed essere abbandonato sull’erba bruciata. Anche se nessuno, oltre i sicari, ha assistito a quell’inseguimento, le sue sequenze - prima immaginate dai cronisti, poi rielaborate dalla memoria- si sono impresse indelebilmente nella storia dell’Italia civile, dell’Italia che, nel corso di un decennio terribile, non ha voluto arrendersi alla violenza criminale e alla corruzione.
Si chiese mestamente Giovanni Falcone, in un editoriale sulla “Stampa”, chi, di lì a qualche mese, si sarebbe ricordato di Livatino. Falcone conosceva bene la rassegnazione e l’impudenza che allignano nei luoghi in cui si fa la vita delle istituzioni, o in cui si forgia l’opinione pubblica. Aveva dunque molte ragioni per porre quell’interrogativo, sul momento totalmente pleonastico. E tuttavia la storia, che pure in un solo anno avrebbe travolto lo stesso Falcone, è andata poi diversamente. Spinto proprio da quella provocazione amara, ho voluto dedicare alla vicenda del giovane magistrato siciliano un libro. Da quel libro è stato tratto un film. Il libro è stato letto da decine di migliaia di persone, il film è stato visto da milioni di persone. A Livatino, diventato simbolo positivo, sono state dedicate vie e piazze, scuole e biblioteche in tutta Italia. La chiesa agrigentina ha avviato un processo per la sua beatificazione. Almeno su questo punto lo sconforto di Falcone è stato riparato, al giudice ragazzino è stata resa giustizia.
Ma questo è avvenuto, e non è inutile sottolinearlo, perchè nei punti sensibili della società italiana la cultura, l’arte, la passione civile di tanti cittadini si sono dati la mano nel ricostruire e fare conoscere una storia destinata all’oblio. Chi ancora oggi continua a spandere pessimismo sulla capacità dei cittadini disarmati di combattere la mafia, dovrebbe davvero riflettere su questo e altri episodi analoghi. Perché c’è chi ha il dovere di reprimere militarmente, di punire giudiziariamente; di investigare, arrestare e fare i processi. Ma poi c’è chi ha il dovere di bonificare politicamente e amministrativamente, chi ha il dovere di educare, chi di informare, chi di parlare, raccontare, sensibilizzare. Ed è l’ insieme delle volontà (e, oserei dire, delle competenze e delle passioni) diffuse in tutto il corpo sociale  che alla fine sposta rapporti di forza anche pesantissimi.
Le manifestazioni che si terranno in occasione del decennale in provincia di Agrigento e un po’ in tutta la Sicilia saranno quindi un momento importante per ricostruire un periodo della nostra storia, e il profilo che vi hanno assunto gradualmente i suoi protagonisti più coraggiosi e consapevoli. Ma anche un momento per riflettere sulle possibilità che sono offerte al semplice cittadino, privo di toga e di divisa, ma orgoglioso della sua cultura civile e del suo amore per il diritto e la democrazia. Ha qualche significato (la notizia è ufficiale, anche se non ha ancora avuto circolazione) se le manifestazioni si terranno sotto l’alto patrocinio della Presidenza della Repubblica. Vuol dire che questa Repubblica, spesso ambigua e incline in certi suoi recessi a mortificare i propri eroi, indica al popolo italiano quel giudice ragazzino come un simbolo positivo, lievito di progresso per tutti.
E ugualmente ha qualche significato se negli stessi giorni anche in provincia di Como un’amministrazione comunale gli dedicherà una biblioteca. Ciò conferma che i simboli davvero positivi parlano a tutti, a tutte le latitudini. E che i percorsi della crescita di un Paese hanno qualcosa di misterioso; affidati  ora alla mano di un bravo insegnante, ora alla parola di un amministratore sensibile, ora alla curiosità di uno studente a digiuno di politica. Nessuno saprebbe predisporli prima, come in un grande piano o in una esaustiva strategia. Nessuno saprebbe ripeterli fedelmente. Sappiamo solo che l’importante è camminare. La strada, la storia, si fanno soprattutto camminando.
[dal sito di www.antimafiaduemila.com]



Per non dimenticare il coraggio di Livatino 
di Luca Tescaroli*
 
Il 21 settembre 1990 veniva eseguito con ferocia l'omicidio di Rosario Livatino. Lungo la superstrada Canicattì-Agrigento, una Fiat Uno turbo diesel, con due sicari a bordo, speronava la Fiesta rossoamaranto sulla quale viaggiava il giudice non ancora trentottenne, mentre sopraggiungeva una moto enduro con a bordo altri due membri del commando. E subito una pioggia di colpi crivellava la macchina di quel magistrato, che, colpito a una spalla, invano cercava scampo nell'arida sterpaglia del vallone, ove veniva rincorso e braccato dai killer che barbaramente gli toglievano la vita senza trascurare di lanciargli «un'infamia verbale». Quando appresi dell'efferato agguato e delle modalità dell'esecuzione, provai dolore e rabbia. Non potevo accettare che fosse morto in quel modo e mi sono chiesto come fosse stato possibile lasciare senza la minima protezione un magistrato da tempo impegnato nella trattazione di processi concernenti la criminalità mafiosa.
A dodici anni di distanza con soddisfazione possiamo dire, dopo la celebrazione di tre processi le cui condanne sono divenute definitive, che quei mafiosi di Palma di Montechiaro hanno un nome e quel delitto un perché. L'eliminazione, con funzione preventiva e di vendetta di Rosario Livatino, è coincisa con un momento di profondo e sanguinoso scontro mafioso ed è stata decisa ed eseguita dalla Stidda per dare un segnale inequivocabile di potenza militare agli avversari di Cosa nostra, un modo obliquo di mettersi in pari con la spietata eliminazione del giudice Antonio Saetta e del figlio Stefano, decretata ed eseguita da Cosa nostra.
Dimenticato dalle istituzioni, spesso distratte e poco accorte verso i propri servitori più zelanti e impegnati, Livatino apparteneva a quel gruppo di persone, ancora non troppo numeroso, che hanno fatto e fanno del coraggio e dell'adempimento del dovere, nel completo rispetto della legge, uno stile di vita. Egli sapeva bene i rischi che correva ma rimase al suo posto nonostante le minacce e gli avvertimenti, l'assenza dei mezzi, le singolari prudenze dei superiori e il senso di impotenza. Un eroe moderno cui il nostro Paese, senza retoriche celebrative, deve essere profondamente grato e che non può essere dimenticato per la sua lezione di professionalità e dignità. Grato, innanzitutto, per aver testimoniato un insegnamento decisivo in ogni tempo: il proprio dovere non può essere condizionato dall'interesse personale, dal compromesso e dall'esistenza di pericoli. La paura, sulla quale prosperano la mafia e l'omertà, può essere sconfitta. Una lezione recepita dal rappresentante bergamasco di porte blindate, Pietro Nava, il quale, avendo assistito all'imboscata e all'inutile fuga del magistrato nei campi sottostanti la strada, non si è tirato indietro e ha testimoniato e denunciato gli aggressori, consentendo di individuare i componenti del gruppo di fuoco.

C'è ancora un'altra ragione di enorme gratitudine nei confronti di Rosario Livatino. Quell'assassinio scosse il Paese e rappresentò la causa determinante per far approvare, nel gennaio del 1991, la prima normativa sui collaboratori di giustizia che, dando dignità giuridica all'istituto, ha fattivamente contribuito ad arginare il potere mafioso e a ottenere gli straordinari risultati in termini di condanne, cattura di latitanti e rinvenimento di armi ed esplosivi. L'anniversario di quell'atroce delitto offre anche l'occasione a tutti i cittadini e ai rappresentanti delle istituzioni per riflettere sulla realtà che oggi viviamo, caratterizzata da una magistratura socialmente isolata e invisa al potere, e da una fase di ciclo basso della lotta alla mafia. Proprio quando la criminalità di tipo mafioso è tornata a essere un affare di pochi, magistratura e forze dell'ordine soprattutto, assistiamo al varo di nuove leggi e alla presentazione di disegni di legge (progetto Cirami, Anedda Pittelli) che se approvati renderanno sempre più difficile l'azione di contrasto al crimine organizzato, impoveriranno ed elimineranno gli strumenti investigativi a disposizione, creeranno le premesse per offrire ai mafiosi innegabili vantaggi processuali e per controllare e condizionare l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, garante indipendente di regole uguali per tutti, che ha dimostrato di saper efficacemente arginare i fenomeni delinquenziali che affliggono la Nazione.
Ritengo che il forte debito di riconoscenza nei confronti di Rosario Livatino e del suo luminoso esempio di vita imponga una rivisitazione critica di quelle iniziative se non si vuole essere costretti a commemorare negli anni a venire altri colleghi del compianto magistrato.
[Repubblica - Palermo, 20 settembre 2002]

*Luca Tescaroli è Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma. E' stato Pubblico Ministero nel processo per la strage di Capaci.




"Il 21 settembre 1990, alle porte di Agrigento Rosario Livatino, un Giudice come tanti – inerme, senza scorta, quasi sconosciuto ai non addetti ai lavori – veniva assassinato e di colpo investito da una notorietà che in vita aveva sempre – ostinatamente - allontanato da sé.Rosario Livatino da Sostituto Procuratore della Repubblica non rilasciava interviste, non passava veline, non lasciava filtrare nulla sulle inchieste che conduceva ed aveva mantenuto ferma questa sua “anomalia” anche dopo il trasferimento in Tribunale.Si limitava a lavorare con impegno, bravura e correttezza, in silenzio e con assoluta discrezione, un vero gentiluomo, colto, garbato e imparziale.
E’ così che mi piace ricordarlo, sottolineandone la profonda umanità, la disponibilità verso i colleghi più giovani, l’intelligenza della conversazione e la totale onestà.Sarebbe inutile e retorico richiamare i suoi meriti, il suo impegno nel lavoro, l’efficacia delle sue inchieste, l’eleganza, la completezza e la precisione delle sue requisitorie e delle sue sentenze...Ancora oggi, il miglior modo per ricordare la sua figura di Uomo e di Magistrato mi sembra quello di ribadire che, sopra ogni altra cosa, egli fu Giudice, solamente e semplicemente Giudice, ma nel significato più alto del termine, sia da giudicante che, soprattutto, da requirente, senza mai prendere le parti dell’accusa per l’accusa (e molti di noi sanno quanto ciò sia difficile).E, forse, anche per questo un commando di barbari assassini la mattina del 21 settembre 1990, lo braccò, lo ferì, lo inseguì lungo una scarpata e gli sparò in bocca un ultimo colpo di pistola subito dopo che Rosario – con una limpidezza ed una ingenuità di cui solo un uomo certo di aver fatto soltanto il proprio dovere può in quei frangenti essere capace – con stupore aveva chiesto ai suoi carnefici “… ma cosa vi ho fatto? …”.
Per capire chi era Rosario Livatino basta richiamare un episodio cui ho avuto la fortuna di assistere: un giorno, P.M. d’udienza, dopo aver chiesto la condanna di un imputato, ascoltando l’arringa del difensore si convinse della bontà delle tesi giuridiche esposte e, senza tentennamenti, in sede di replica, ritirò la richiesta e chiese l’assoluzione dell’imputato.Questo è lo straordinario servizio che Rosario Livatino ha reso alla sua terra ed all’intero Paese esercitando la Giurisdizione con impegno, obiettività e serenità di Giudizio, senza esibizionismi né tesi preconcette.
Una lezione attuale per tutti coloro che continuano in questo Paese ad esercitare il “mestiere” di Giudice - sia con funzioni requirenti che giudicanti – per riaffermare la legalità, contrastare la criminalità mafiosa, la corruzione nella pubblica amministrazione e la criminalità economico-finanziaria, molto spesso interconnesse tra loro.Per questi Giudici, troppo spesso aggrediti da polemiche violente e gratuite, vale l’esempio di Rosario Livatino nella speranza che all’impegno di lavorare in silenzio da parte dei Magistrati corrisponda maggiore rispetto per la verità ed una più pacata ragionevolezza nell’affrontare la “Questione Giustizia”, da tutti opportunamente ritenuta di centrale importanza nel più vasto quadro delle riforme istituzionali.La nostra democrazia ha bisogno di formare ed utilizzare Giudici preparati, impegnati e indipendenti proprio come Rosario Livatino, per garantire il controllo di legalità nel nostro Paese e per far questo non servono le conferenze stampa, i proclami guerreschi, le aggressioni personali, lo scontro istituzionale, ma un confronto sereno e costruttivo tra tutte le componenti della società civile.
Se questo avverrà sarà possibile liberare la Sicilia (e l’intero Paese) dal giogo mafioso e dell’illegalità diffusa in cui da troppo tempo si trova intrappolata, senza che per questo Magistrati, appartenenti alle Forze dell’Ordine ed inermi cittadini siano costretti a rischiare ogni giorno la propria vita.Se questo avverrà Rosario Livatino – e con lui tutte le altre vittime degli omicidi e delle stragi di mafia – non sarà morto invano."

Luigi Birritteri (magistrato, movimento per la giustizia)


[dal sito rosariolivatino.splinder.com]


Il "missionario" del diritto: Rosario Livatino
di Maria Di Lorenzo

Martire della giustizia
Rosario Livatino: un giovane, un giudice, un cristiano. Non un santo a tutti i costi, non un superuomo, ma un uomo come mille altri. Innamorato della vita, della giustizia, della verità. Eroe per caso nella terra dei limoni e dei carretti, della lupara e del tritolo mafioso.
Uno dei cosiddetti "giudici ragazzini" chiamati a fronteggiare "Cosa nostra". L’Italia lo conobbe dalle pagine dei giornali soltanto all’indomani della sua morte, avvenuta il 21 settembre 1990, mentre percorreva la statale 640 per recarsi ai lavoro presso il Tribunale di Agrigento. Dopo il barbaro assassinio, la sua figura ha cominciato a distinguersi nell’immaginario di chi vive nell’Italia di oggi ma ne sogna una diversa.
Un servitore dello Stato. "Un martire della giustizia e, indirettamente, anche della fede..."", come ha detto di lui Giovanni Paolo II ad Agrigento il 9 maggio del 1993.

[dal sito www.gesuiti.it/moscati/Ital3/Livatino_DL.html]






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