25.10.2006 – la Gazzetta del Sud

Delitto Fortugno
Il dossier della Commissione d'accesso istituita dal prefetto De Sena all'indomani dell'omicidio del vicepresidente del Consiglio regionale

Sanità nella Locride, il pianeta del malaffare

La Dda indaga su un groviglio inestricabile di parentele e amicizie "pericolose", che gestiva un meccanismoin grado di "inghiottire" 88 milioni di euro di denaro pubblico in 5 anni, in barba a qualsiasi normativa antimafia

di Giuseppe Tumino

REGGIO CALABRIA

Davanti all'Asl di Locri, al cospetto dell'inestricabile matassa di cointeressenze tra sanità e malavita, tra gli affari delle cosche e ogni tipo di servizio e appalto, il tutto con la banale scusa di tutelare la salute dei cittadini, persino un presidente del Consiglio del ministri della Repubblica italiana è andato in tilt. È successo a pochi metri dalla tomba di Francesco Fortugno, vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria e primario del pronto soccorso dell'ospedale di Locri, caduto in una pubblica esecuzione il 16 ottobre del 2005. Quando, lo scorso 9 ottobre, un giornalista indiscreto gli chiese a bruciapelo quando nell'Azienda sanitaria più infiltrata (dalla mafia) d'Italia sarebbe stata riportata una parvenza di legalità, quando sarebbe finita la fase del commissariamento, il premier, scuro in volto, rispose con la voce dell'innocenza: «Non ho elementi per rispondere alla domanda». Affermazione insolita per un capo di governo. Eppure, gli elementi per tutte le risposte del mondo possono essere agevolmente rintracciati nella relazione della commissione d'accesso dell'Asl numero 9 di Locri. Un documento assolutamente pubblico, disponibile nella sua versione integrale, "linkato" ad esempio, sul sito della Casa della Legalità di Genova (www.genovaweb.org) e direttamente su "democrazialegalita.it.". Chiunque può scaricarlo e consultarlo.


IL DELITTO - Qualche passo indietro, prima del tuffo nella grande melma. L'Azienda sanitaria locale n. 9 di Locri venne commissariata da uno dei primi atti posti in essere dopo il suo insediamento dal superprefetto di Reggio Calabria, Luigi De Sena avvenuto il 7 novembre 2005. Pochi giorni prima, il 16 ottobre, Francesco Fortugno, vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria, era stato ammazzato da un commando di due killer nell'androne di palazzo Nieddu, a Locri, mentre, da esponente della Margherita, si accingeva a votare per le "primarie" dell'Unione. La professione della vittima – era primario del Pronto soccorso dell'ospedale di Locri – indirizzò subito le indagini nel mondo della sanità. Il pool di magistrati della Dda di Reggio guidato da Francesco Scuderi e composto da Giuseppe Creazzo e Marco Colamonici, sotto le direttive del procuratore capo Antonino Catanese, giunse nella notte tra il 20 e il 21 marzo 2006 ad arrestare il presunto killer. La polizie strinse le manette ai polsi di Salvatore Ritorto, presunto esecutore materiale del delitto, e di Domenico Audino, Domenico Novella, Carmelo Dessì, presunti fiancheggiatori. L'operazione, chiamata Arcobaleno, prese le mosse dalle dichiarazioni di un pentito, Bruno Piccolo, già agli arresti. Con altri capi di imputazione, ma ritenuti estranei al delitto, vennero pure arrestati Antonio Dessì, Carmelo Crisalli, Gaetano Mazzara, Nicola Pitasi, Vincenzo Cordì. Tutti vicini alla cosca Cordì, in guerra a Locri con quella dei Cataldo. Tre mesi dopo, nella notte tra il 20 e il 21 settembre, i carabinieri arrestano Alessandro Marcianò, 55 anni, caposala dell'ospedale di Locri e il figlio Giuseppe, 27 anni. Il primo, detto "Celentano", considerato vicino ai Cordì (ha fatto compare d'anello al figlio del boss) è ritenuto il presunto mandante del delitto Fortugno. Il figlio Giuseppe avrebbe accompagnato Ritorto per l'esecuzione del delitto. Presunto movente: "Celentano" era considerato capo elettore di Domenico Crea, il consigliere regionale che ha preso il posto di Fortugno. Alessandro Marcianò lavorava all'ospedale di Locri nello stesso ufficio di Maria Grazia Laganà (vice direttore sanitario), vedova di Francesco Fortugno, diventata nel frattempo parlamentare dell'Ulivo. Anche se le indagini non hanno attribuito alcuna responsabilità a Domenico Crea, il governatore Loiero lo ha invitato a dimettersi. Ne è nato un caso politico: Crea non ha lasciato il Consiglio, ma si è autosospeso dalla Margherita.


IL DOCUMENTO - Per gli inquirenti, insomma, il caso Fortugno sembra chiuso: l'assassinio avrebbe rappresentato una sorta di "regolamento di conti" tra comitati d'affare che operavano nell'ambito della sanità locrese. Non è chiuso invece, il capitolo sanità nella Locride. Si attendono infatti sviluppi clamorosi dall'inchiesta che la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria ha aperto sulla base della relazione portata a termine dalla Commissione d' accesso all'Azienda sanitaria di Locri. Il dossier porta le firme del prefetto Paola Basilone, che presiedeva la commissione d'accesso, del maggiore della Guardia di Finanza Luciano Tripodero, e del dott. Michele Scognamiglio. Sono 183 pagine fitte, anzi straripanti, di nomi, un mappa impietosa e disarmante del potere di inflitrazione delle famiglie mafiose nella sanità della Locride. Un potere esponenzialmente maggiore ove si consideri l'estrema debolezza del tessuto economico del territorio, che di fatto rende il comparto della sanità pubblica il maggior datore di lavoro su piazza e, al contempo, la "greppia" più copiosa di finanziamenti pubblici "pronta cassa". Il che si traduce, senza mezzi termini, nel completo, soffocante e assoluto controllo del territorio da parte delle 'ndrine.


I NUMERI - Sono, semplicemente, da brividi. Nel quinquiennio gestionale preso in considerazione dalla Commissione d'accesso, quello che va dal 2000 al 2005, e spese sostenute dall'azienda sanitaria «superano di gran lunga, e per importi considerevoli, i parametri di spesa» consentiti dalla legge. «Il tetto di spesa complessivamente sostenuta – si legge nella relazione – nel periodo 2000/2005 è stata pari a 88.227.864,90 euro che è quasi il doppio della spesa massima autorizzabile», e circa il triplo di quella considerata "normale". Ottantotto milioni di euro in 5 anni. Una cifra spaventosa, grazie alla quale si vorrebbe far credere siano state erogate 11.224.919 fra prestazioni sanitarie ed esami, su una popolazione di appena 135.000 anime. In virtù di tali dati, il servizio sanitario della Locride avrebbe erogato 84,6 prestazioni complessive a ogni singolo cittadino. In pratica, ogni anno ciascun abitante dei 42 comuni locridei si sarebbe rivolto al servizio sanitario 13,96 volte. Tutti, compresi neonati, atleti e gente che scoppia di salute. Dilemma ozioso: o da queste parti gira tanta sfiga, oppure girano tanti soldi. Indovinate voi l'ipotesi più gettonata, nessun premio in palio.


LE SPESE - I commissari, difatti, non sembrano nutrire dubbi: «Si è assistito – scrivono – a un diffuso e sistematico sforamento dei tetti di spesa, che non solo ha determinato un dilagante fenomeno di indebitamento della Asl, ma che al contempo ha comportato indebiti vantaggi economici da parte di strutture private i cui soci sono risultati spesso interessati da precedenti penali o di dubbia moralità». Si cita ad esempio un laboratorio di Siderno: «Euro 10.131.780 tetto di spesa autorizzato, 31.544.814 euro di fatture pagate». Ma naturalmente nessuno si era mai accorto di niente, l'azienda continuava a pagare, a prezzi assolutamente fuori mercato, e ambulatori e istituti privati, anche i più "sospetti", incassavano pacificamente. Stesso discorso per quanto riguarda l'acquisto di materiale sanitario e forniture industriali. La Commissione parla di un «diffuso ricorso alla trattativa privata per l'acquisizione di beni e servizi». Tutto, proprio tutto – dagli appalti per forniture, alle analisi di laboratorio, al servizio di accalappiamento dei cani – era insomma affidato con «violazione sistematica della normativa antimafia, con mancata attivazione delle procedure di richiesta di certificazione per frammentazione delle forniture, tale da renderle di valore inferiore al minimo della soglia richiesta dalla legislazione vigente». E così – più che aggirata, totalmente disattesa la normativa antimafia – lavoravano per l'Azienda sanitaria di Locri, profumatamente pagati con denaro dei contribuenti, sempre e soltanto i soliti noti.


L'ORGANIZZAZIONE - Certo, per arrivare a tanto, i meccanismi a livello dirigenziale all'interno dell'Asl dovevano essere a prova di controlli. Anche su questo punto, il dossier Basilone non si rifugia certo in mezze frasi: il segreto era l'«assoluta e probabilmente non ostacolata disorganizzazione dell'ufficio». E in effetti i poveri commissari devono essersi messi le mani ai capelli, nel tentativo di capirci qualcosa. Leggere per credere: «La richiesta della Commissione, più volte formulata, tendente ad ottenere il quadro complessivo degli organici relativi alle figure dirigenziali, ha trovato parziale e assolutamente non esaustivo riscontro. Pertanto, stante la mole della documentazione da acquisire e la complessità della medesima, non si è riusciti a ottenere uno scenario certo e definito dell'azienda, con l'identificazione del posto in organico e della relativa figura professionale che lo ricopre». Un'azienda di "senza volto" insomma. Davanti ai commissari si materializza così una parete di terzo grado, un muro di gomma, un autentico labirinto di "dipartimenti", "distretti", "strutture complesse" e , all'interno di queste, "strutture semplici", in barba anche a un esplicito divieto legiferato dalla Regione Calabria. «In tale contesto – concludono stremati i commissari – si spiega la mancanza presso l'Asl di una commissione di disciplina del personale».


IL PERSONALE - Disciplina? Figuriamoci. Tra gli impiegati e i funzionari, ad ogni livello, figurano nomi di pregiudicati e di personaggi che il dossier considera affiliati o vicini a cosche calabresi. E se non direttamente coinvolti in "disavventure" giudiziarie o interessati da indagini di polizia, moltissimi impiegati e funzionari, come anche medici e infermieri (il dossier contiene l'elenco completo) "vantano" stretti vincoli di parentela con personaggi di riffe o di raffe con precedenti penali aller spalle o legati a consolidati interessi mafiosi. Non stupisce quindi che la suddetta commissione disciplinare interna, «dopo essersi occupata di due casi del tutto marginali – recita il dossier – si è sciolta» e tanti saluti. Nulla di strano quindi che condannati anche in via definitiva si aggirassero negli ospedali e negli uffici del tutto indisturbati. In un caso, addirittura, riferiscono i commissari, l'Asl ha continuato a pagare l'intero stipendio a un dipendente che non prestava servizio. Perché detenuto, poveraccio. Scrive la commissione: «Per garantire il perseguimento dei propri obiettivi, e il controllo sulla gestione della "cosa pubblica", la pressione sugli organi dell'Asl è stata possibile anche grazie alla presenza all'interno dell'azienda di personale, medico e non, legato da rapporti familiari a noti esponenti della criminalità organizzata locale o comunque interessati da rilevanti precedenti di polizia o penali. Tale presenza denota tanto la causa quanto l'effetto dell'ingerenza della criminalità organizzata nella gestione dell'azienda, perché si traduce nella possibilità di imporre dall'esterno le scelte di assunzione o, quanto meno, di impedire lo scioglimento dei vincoli lavorativi, sia al fine di tener sempre sotto verifica dall'interno le scelte gestionali, sia per poter garantire la tenuta di una gestione clientelare». Chiaro no?

LA CONCLUSIONE - Inevitabile: «Una valutazione complessiva del lavoro svolto – affermano i commissari – ha determinato la convinzione che gli indizi raccolti in ordine all'esistenza di un'infiltrazione della criminalità organizzata, hanno dimostrato la compromissione del regolare legittimo andamento della gestione della cosa pubblica, Peraltro, la presenza all'interno dell'Asl di personale, medico e non, legato da stretti vincoli di parentela con elementi di spicco della criminalità locali o interessati da precedenti di polizia giudiziaria per reati comunque riconducibili ai consolidati interessi mafiosi, ha permesso di verificare non solo la presenza di un "contatto" tra le organizzazioni malavitose e l'Azienda, bensì una vera e propria "infiltrazione" in quest'ultima. In altri termini – conclude la relazione – il quadro indiziario dal quale si è presunta l'esistenza di una pressione dall'esterno della 'ndrangheta trova la sua continuità nel condizionamento che sulle scelte gestionali e di indirizzo la stessa organizzazione (la 'ndrangheta) ha potuto esercitare all'interno. In estrema sintesi, ed in conclusione, da un lato si è riscontrata un'arbitraria occupazione da parte della criminalità locale organizzata, e dall'altra una compressione dell'autonomia dell'Asl, la cui volontà è risultata fortemente diminuita».

Questa era, secondo la Commissione prefettizia, la Asl di Locri, oggi commissariata a tempo indeterminato, e in attesa di una gragnuola di avvisi di garanzia. Per le speranze dei cittadini onesti, ancorché dei poveri ammalati, c'è sempre tempo. Forse.






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