GAZZETTA DEL LUNEDI' del 22 maggio 2006

LE RELAZIONI DEGLI INQUIRENTI
In Liguria la ‘ndrangheta ha messo radici


Nel corso dei lavori della commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno mafioso sono stati ascoltati numerosi investigatori e magistrati che hanno spiegato l’attività delle forze dell’ordine e le misure di prevenzione e di repressione adottate nel corso degli ultimi anni. Relativamente alla criminalità organizzata i origine calabrese la dottoressa Anna Canepa, sostituto procuratore presso la direzione distrettuale antimafia di Genova, nella sua esposizione ha confermato la presenza radicata, nel territorio ligure, di calabresi collegati alla ‘ndrangheta e in particolare di “un’indagine che non ha sortito alcun effetto giudiziario”.
L’inchiesta ha comunque permesso di raccogliere materiale assolutamente rilevante dal punto di vista conoscitivo del fenomeno della ‘ndrangheta in Liguria, dal 2000 ad oggi. La dottoressa Canepa ha affermato che l’indagine, pur contenendo elementi di riscontro, non ha dato gli esiti attesi in quanto: “Il punto di vista della autorità giudiziaria non coincide non coincide con quello dell’autorità di polizia, per la quale è più che sufficiente avere queste conversazioni per dire che si tratta di 416-bis e che quindi si possono portare a processo i soggetti coinvolti. La giurisprudenza ci insegna che il reato associativo sussiste anche aldilà del fatto che vengano commessi reati fine, ma in relazione all’esperienza genovese non abbiamo ritenuto sufficiente ciò che avevamo per portare a processo questi soggetti, perché non sono stati commessi illeciti nella regione. Ho speso dieci anni della mia vita professionale per cercare il riconoscimento del reato di associazione di stampo mafioso a Genova. Sono stati dieci anni di battaglie giudiziarie perché nel 1996 le indagini durate cinque anni e portate avanti dal Ros dei Carabinieri sono state vanificate, sono finite praticamente nel nulla perché la Corte d’Assise di Genova ha negato la connotazione di mafiosità a una associazione riconducibile a un emissario di Cosa Nostra a Genova da parte di Giuseppe Madonna.


DIETRO LA COSTRUZIONE DI UNA SCUOLA A BUSALLA
APPALTO CON “PIZZO” E SCONTO
Per ammorbidire le pretese di un clan calabrese l’impresa chiede aiuto alla Camorra


La vicenda è stata scoperta dai Carabinieri del Ros ed è riportata pari pari nella relazione conclusiva della Commissione Parlamentare di inchiesta. In ballo un appalto da tre milioni di euro.

Un accordo tra mafiosi per concedere ad un azienda edile… sconto sul “pizzo”. Succede anche questo nella provincia genovese che alcuni magistrati dell’Antimafia garantiscono “immune” da infiltrazioni della criminalità organizzata. Una storia per certi versi assurda, eppure confermata da un indagine riservata della Direzione Distrettuale Antimafia di Genova e riportata pari pari nella relazione conclusiva della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno mafioso.
Il teatro della vicenda è Busalla, il centro più importante della Valle Scrivia, appena oltre il passo dei Giovi, una ventina di chilometri da Genova. I fatti risalgono al 2003 quando alcuni esponenti della malavita calabrese cercano prima di subentrare poi di ottenere il “pizzo” su un appalto per un lavoro di circa 3 milioni di euro per la ricostruzione di una struttura scolastica. La ditta vincitrice dell’appalto, di Giuliano in Campania, si rivolge a un clan camorristico per essere tutelata. I calabresi, venuti a conoscenza di questo, a loro volta contattano elementi del clan Mallardo, di Giuliano, per raggiungere un accordo con la controparte e far pagare alla ditta una somma minima. In altre parole, l’impresa campana si ritrova a dover versare alla ‘ndrangheta il 7% invece del 10% del valore complessivo dell’appalto. Tutto grazie a un accordo raggiunto tra camorristi e ‘ndranghetisti quasi unico nel panorama italiano. E poco importa se nel corso delle “trattative” tra mafioso, siano stati appicati un paio di incendi a Busalla per minacciare i responsabili dell’azienda edile. Gli investigatori del Raggruppamento Operativo Speciale (Ros) dei Carabinieri hanno documentato ogni passaggio, ogni episodio, ogni incontro con scrupolosa attenzione eppure i magistrati non hanno ritenuto di dover procedere nei confronti dei responsabili, archiviando l’intera vicenda.
Ad ogni modo, l’episodio di Busalla viene definito “sintomatico” dalla Commissione Parlamentare di inchiesta quando si dice che “attraverso l’attività investigativa sono stati raccolti elementi, di grande interesse, che hanno consentito di individuare delle propaggini della ‘ndrangheta e di avere la riprova dell’esistenza fisica non solo di esponenti, ma di vere e proprie strutture sul territorio. Scoprire queste strutture è stato particolarmente importante poiché in Calabria è facilmente attribuibile l’appartenenza di un soggetto a una ben determinata cosca, mentre al nord la situazione è molto più confusa ed è difficile definire le varie collocazioni per la presenza di “alleanze” non realizzabili nelle zone tradizionalmente interessate dal fenomeno mafioso“. In particolare, il Ros ha individuato “almeno cinque ‘locali’ (la cellula base dell’organizzazione ‘ndranghetista, ndr.) a Genova, a Lavagna, a Busalla , Sarzana e a Ventimiglia, che gestiscono i collegamenti con le similari strutture francesi esistenti a Mentone e Nizza. Inoltre è stata scoperta una sorta di “ camera di compensazione “ che coordina le attività dei gruppi nella regione e nel Piemonte.

La ‘ndragheta, che dispone di una elevata autonomia operativa locale anche se vincolata dalle direttive strategiche delle cosche originale ha esteso il suo primato al capoluogo regionale, alla riviera di ponente (Ventimiglia, Varazze, Alberga, Taggia e Busalla ove sono risultate attive strutture composte da esponenti provenienti dalla Piana di Gioia Tauro ) ed alla riviera di levante ( Lavagna, soprattutto, dove sono attive cellule composte da esponenti della fascia Ionica calabrese ).

Ma c’è di più: Attraverso le “ camere di controllo “, le organizzazioni criminali assicurano, in qualche modo, la protezione mafiosa  soggetti incaricati di riciclare gli ingenti profitti provenienti dai traffici illeciti commessi nelle regioni di origini. Tutto questo emerge da un’indagine condotta dalla DDA di Reggio Calabria a carico di alcuni elementi di primo piano della ‘ndrangheta, i quali assicuravano appoggio, protezione e copertura ad un nutrito gruppo di persone, operanti in Liguria, incaricato di riciclare, con tecniche di avanguardia e con truffe sofisticate, i proventi dell’attività delittuosa commessa in Calabria.

Simone Traverso


I TENTACOLI DELLA “PIOVRA”
L’usura come strumento per il riciclaggio

Una gang, sgominata recentemente dalla finanza, applicava tassi medi di interesse pari al 120% annuo.  

Non solo appalti, droga, prostituzione e lavoro “nero”. La criminalità organizzata ha scelto la Liguria come centro per il riciclaggio del denaro “sporco”. Uno strumento tipico utilizzato per il riciclaggio è l’usura e gli inquirenti sono convinti che esista una sorta di “cupola” che gestisce ingenti patrimoni e che opera grazie alla consulenza finanziaria di un importante funzionario, direttore della “private banking” di un istituto di credito. L’indiscrezione è tuttora oggetto d’indagine, come confermato dalla Commissione Parlamentare di Inchiesta sul fenomeno mafioso.
“Recentemente, il Gruppo di Investigazioni sulla Criminalità Organizzata della Guardia di Finanza (GICO) ha concluso un’indagine che ha permesso di disarticolare un’organizzazione criminale che operava nel genovese ed applicava tassi medi d’interesse pari al 120% annuo – scrivono i ‘commissari’ -. Nel contesto dell’operazione sono stati sequestrati beni mobili ed immobili ed eseguite ordinanze di custodia cautelare. Attraverso altre indagini è stata anche evidenziata l’acquisizione di alcune aziende del genovese da parte di usurai. Questo un fenomeno di recrudescenza nell’area: in momenti di difficoltà economica molti operatori commerciali, vedendosi negato l’accesso ai canali istituzionali finanziari, si trovano nella necessità di dover contattare usurai. Indagini in corso avvalorano l’ipotesi che questi operino collegati tra di loro e si avvalgano, per la gestione degli ingenti patrimoni di cui dispongono, della ‘consulenza finanziaria’ di un importante funzionario, direttore della “private banking”, di un istituto di credito”. Nel corso delle audizioni davanti alla Commissione il Maggiore della Guardia di Finanza Dario Solombrino, comandate del GICO di Genova, ha dichiarato che: “Il contrasto al crimine organizzato non può prescindere da un’aggressione di tipo economico-patrimoniale, considerate le capacità che queste organizzazioni hanno nell’accumulare cospicui proventi illeciti e la possibilità, attraverso le moderne tecnologie, di trasferire capitali, in tempo reale, in ogni parte del globo. Ogni accumulazione di ricchezza illecita è vulnerabile nel momento in cui sorge la necessità di investire nel circuito dell’economia legale, poiché i capitali devono passare attraverso i canali istituzionali e dell’intermediazione finanziaria. E’ in questi settori specifici che l’attività informativa e la preparazione professionale degli investigatori devono essere costantemente sviluppate, per avere la capacità di leggere ed analizzare le segnalazioni antiriciclaggio provenienti dagli istituti di credito, nella considerazione che il “riciclaggio” è un reato tra i più difficili da accertare e da provare. Il periodo di tempo che trascorre, non meno di un anno, tra l’operazione sospetta fatta presso un istituto di credito e la segnalazione agli uffici di polizia competenti rappresenta una delle maggiori difficoltà da superare e permettere ai riciclatori di correre ai ripari. Nel nostro ordinamento non sono ancora contemplate norme che impongano al “colletto bianco” che acquista in contanti un bene, di qualsivoglia natura e valore esso sia, l’onere di provare la provenienza dei soldi”.  






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