L’UNITA – 18.07.2006

Caro Borsellino, la mafia non esiste?

di GianCarlo Caselli

 

Sembra un secolo fa. E invece sono solo 14 gli anni trascorsi dalla strade di via d’Amelio che causò la morte di Paolo Borsellino e dei ragazzi che erano con lui in quell’orribile 19 luglio del ’92. Sembra un secolo perché sembra voglia ritornare il tempo…che la mafia non esiste. Subito dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino l’enormità della violenza mafiosa produsse una mobilità senza precedenti nella società civile, insieme ad un forte recupero di entusiasmo e di efficienza nelle forze dell’ordine e nella magistratura. Conseguentemente vi fu un imponente serie di indiscutibili successi nell’azione repressiva.

Questa azione è continuata anche i seguito: lo prova il recente arresto di Provenzano (dopo quelli degli anni passati di Riina, Brusca, Aglieri, Bagarella, Graviano, Santapaola e tantissimi altri). Ma qualcosa è via via cambiato, rispetto al periodo successivo alle stragi. E oggi sembra a volte riaffiorare prepotente, in certi media e in ampi settori della politica (con contaminazione anche a sinistra), la perversa tendenza a dire o far credere – come tanti anni fa – che la mafia non esiste. Certo, nessuno osa dirlo esplicitamente, con la brutale schiettezza che tempo addietro caratterizzava fior di notabili, compresi Cardinali e Procuratori Generali. Le tecniche si affinano, oggi si è meno rozzi e ci si limita a non perdere occasione per provare a ridurre “Cosa Nostra” ad organizzazione criminale sanguinaria, si, ma tutto sommato anche folcloristica. Emblematiche, a riguardo, sono certe cronache su Provenzano, che intrecciano prostata e cicoria, pannoloni e pizzini, vangeli e macchine per scrivere antidiluviane, covi mezzo diroccati, squallidi e sporchi, con rotoli di banconote, santini e formaggi custoditi alla rinfusa. E le T-shirt della vergogna con le scritte “Mafia made in Italy”, per le quali in tanti ci si è giustamente indignati, sembrano un po’ figlie  di questo “nuovo” clima: che può anche indurre i più spregiudicati o irresponsabili ad osare la mercificazione – con contestuale banalizzazione – di ciò che ancora poco tempo fa era, almeno pubblicamente, impresentabile. Del resto, la tendenza a ridurre la mafia ad un’organizzazione criminale un po’ folcloristica emerge addirittura dalla Relazione della Commissione parlamentare antimafia della legislatura appena conclusa, se è vero – come è vero – che essa nega ogni carattere strutturale del rapporto tra mafia e potere, riducendo Cosa Nostra (testuale!) a fenomeno “legato a condizioni di incultura, di scarsa mobilitazione o tensione sociale, a momenti di crisi morale ed economica”; con il capolavoro finale del patetico tentativo (portato avanti, in verità, con una fragile dissociazione dell’opposizione) di scrollare dalle spalle del senatore Andreotti il macigno, confermato financo in Cassazione, delle sue collusioni con la mafia fino al 1980.

In un simile contesto, si capisce meglio il riproporsi della “filosofia” del contrasto alla mafia come problema soltanto di “guardie e ladri”, da delegare tutto a polizia e magistratura, il cui intervento viene perciò esaltato quando si arrestano esponenti di vertice o quadri intermedi dell’ala militare o immediati dintorni, mentre si accusano di indebito uso politico della giustizia (comunisti!) i magistrati che si permettono di indagare senza sconti anche sulle cosiddette “relazioni esterne”, ossia sulle coperture, complicità e collusioni che sono la spina dorsale del potere mafioso. Al punto che se un magistrato dell’antimafia non viene aggredito o addirittura è sostenuto dai “soliti ignoti”  c’è da chiedersi dove sia sbagliando… E’ di decisiva importanza, allora, dare segnali precisi di discontinuità, di inversione di tendenza. Molte le cose che si dovrebbero fare. Ne segnalo due, a mio avviso pregiudiziali.

La prima riguarda la legislazione antimafia, oggi disseminata e dispersa in mille rivoli (codice penale, codice di procedura penale, norme di diritto amministrativo, ordinamento penitenziario, leggi più o meno speciali sui “pentiti”, sul riciclaggio, sugli appalti, sulle misure di prevenzione personali e patrimoniali, sui beni confiscati e via seguitando), con sovrapposizioni, contraddizioni, stratificazioni ed incongruenze che spesso ostacolano, ritardano o rendono vischiosi gli interventi. E’ urgente predisporre un testo unico della legislazione antimafia, che faccia ordine e chiarezza, e al tempo stesso proponga i necessari aggiornamenti. Il ministro Mastella ha pubblicamente manifestato l’orientamento di creare un’apposita commissione. Per favore, che dalle dichiarazioni di intenti si passi – senza più attendere – alla traduzione in cifra operativa dei buoni propositi.

L’altra misura urgente riguarda la gestione dei beni confiscati ai mafiosi. Nella passata legislatura le relative competenze (da un ufficio specializzato, che si occupava soltanto di questo) furono inopinatamente trasferite al demanio, cioè un calderone enorme dove la specificità dei problemi derivanti dall’origine mafiosa dei beni non può non perdersi: per ragioni strutturali ed obiettive, ma con guasti ed inconvenienti a non finire che aumentano di giorno in giorno. Di qui la necessità di ripristinare un qualcosa – si chiami Agenzia o Alto Commissariato poco importa – che sia incaricato di occuparsi esclusivamente dei beni confiscati ai mafiosi, così da poter mirare gli interventi volta a volta necessari sulla specifica concretezza dei problemi, affinandone, via via la conoscenza e specializzandosi sempre più nella risoluzione di essi. Si tratta di impedire che appassisca quel fiore all’occhiello che il nostro Paese può orgogliosamente esibire: il fiore dell’antimafia dei diritti, delle opportunità e del lavoro. Un fiore che profuma di coraggio e di riscatto, di lavoro pulito e di cittadinanza vera. Un fiore che può indirizzare il futuro dei giovani verso una migliore qualità della vita. Un fiore che emana quel “fresco profumo di libertà che si contrappone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità” di cui parlò proprio Paolo Borsellino alla vigilia della sua morte. Un fiore coltivato da “Libera”, l’organizzazione della società civile in cui tanta parte ha avuto Rita, la sorella di Paolo Borsellino. Un fiore che oggi va sostenuto e protetto, se non si vuole che il rigore e il volto pulito di tanti siciliani onesti, che alla memoria di Paolo Borsellino ispirano il loro quotidiano impegno, soccombano nella palude della serena convivenza con la mafia praticata dai “maestri” della duttilità. Quelli che i rapporti tra mafia e potere li risolvono come se si giocasse a Monopoli: se peschi un “Imprevisto”, magari stai fermo per un po’; ma poi ricominci a giocare; con gli stessi terreni, le stesse case, gli stessi alberghi, le stesse stazioni, gli stessi soldi di prima; persino con la stessa pedina di prima. Non è precisamente per questi indecenti balletti che hanno sacrificato la loro vita Paolo Borsellino e tanti altri come lui.





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