Genova, 30 marzo 2006

Indipendenza, contiguità e appartenenza
di Christian Abbondanza e Simonetta Castiglion

Combattere le mafie, fare i nomi delle “famiglie” mafiose, di Cosa Nostra o della ‘Ndrangheta per esempio, non significa combattere contro una comunità, in questo caso quella siciliana o calabrese. Se non si indicassero i nomi, non si facesse chiarezza sulle famiglie, le cosche, indicate da sentenze e relazioni, documenti e atti pubblici delle autorità preposte, allora sì. In questo caso si potrebbe pensare ad una generalizzazione nella denuncia. Ma noi siamo sempre stati chiari, abbiamo sempre fatto i nomi! Chi si ostina a confondere questi nell’alveo della “comunità” fa il gioco di quelle famiglie citate perché fatti e documenti, non scritti da noi, lì indicano come mafiosi. Per fare degli esempi, dire che le famiglie attive della ‘Ndrangheta a Genova sono, ad esempio, Mamone-Raso-Gullace non è accusare i calabresi, bensì indicare con chiarezza chi si nasconde dietro comunità oneste per portare avanti gli affari illeciti del sodalizio mafioso. Su Cosa Nostra idem, dire che le “famiglie”  Maurici, Fiandaca, Ferro, per esempio, sono indicate come gruppi della mafia siciliana, non significa accusare l’intera comunità siciliana presente ed attiva onestamente in questa nostra terra.

E’ sempre stata la linea di difesa principale dei mafiosi quella di nascondersi dietro “la comunità”, e sempre lo sarà. Sapendolo, ascoltando e leggendo con attenzione, risulterà evidente che siamo davanti all’ennesimo tentativo di “auto-protezione”.
La comunità deve saper isolare quelle “famiglie”, i gruppi criminali, quanti vivendo in quell’ambito o provenendo da essi, non scelgono di collaborare con lo Stato e testimoniare, denunciare quanto di illecito ha fatto e fa la propria “famiglia” o cosca, ed è di loro perfetta conoscenza. L’indipendenza della comunità dalle organizzazioni mafiosi non è messa in discussione da chi combatte la mafia, bensì da chi usa il termine comunità, la cultura dell’appartenenza e dell’origine comune ad un territorio, come strumento per schermarsi e proteggersi.

Vi sono poi elementi di contiguità e convivenza. Qui come al Sud e nelle altre zone di radicamento delle mafie. Questi possono e devono essere rotti. Quanti, cittadini semplici o parte della classe dirigente, non vogliono sottostare alle indicazioni di quella o questa “famiglia” o cosca debbono sapere che è possibile tenere la testa alta e denunciare i tentativi di condizionamento o le richieste del prepotente di turno. E’ una scelta possibile e necessaria, soprattutto per salvaguardare la grande cultura civile propria della Sicilia e della Calabria. Chiunque può denunciare o segnalare fatti e persone, circostanze e luoghi alle autorità preposte e preparate ed aiutare a smembrare il muro di omertà, collusioni e paure su cui si regge la forza intimidatrice delle mafie. E’ proprio da Genova Rivarolo che è venuta la prima collaborazione di giustizia della ‘Ndrangheta, riconosciuta dallo Stato ed ora sotto protezione.

La questione è semplice, qui come al sud, occorre rinunciare ai favori, al guadagno facile come allo scambio di voti per esempio, e dire con chiarezza etica e coerenza quotidiana che con quello o questo gruppo della criminalità organizzata non si parla e non si tratta. E’ sottraendo la propria disponibilità alla convivenza ed allo “scambio”, è negando il silenzio e l’omertà, che riscattiamo e difendiamo la nostra coscienza e difendiamo un futuro dignitoso e libero anche ai nostri figli.

Non sono accettabili invece le via di mezzo, i tentativi di tenere i piedi in due scarpe. Dire “anche io sono contro la mafia” ma poi non dire quello che si sa, negando alle autorità investigative e giudiziarie dello Stato la denuncia e testimonianza. A questi signori dobbiamo dirlo di cuore: vergognatevi!

Certo può essere difficile, certamente rischioso, rompere un patto, magari siglato con il rito del “bacia mano”. Ma si deve scegliere se restare fedeli ad un patto indecente che condanna i cittadini a divenire sudditi, oppure scegliere, come diceva un siciliano che ha amato profondamente la sua terra, Paolo Borsellino: “…
Non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le nostre giovani generazioni le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone quando in un breve periodo di entusiasmo egli mi disse: La gente fa il tifo per noi. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dava al lavoro del giudice, significava qualcosa di più, significava soprattutto che il nostro lavoro stava anche svegliando le coscienze”.
 
In molti stanno alla finestra a guardare, questo è quello che si è notato in molti durante il “Cammino”, ma sono anche tanti quelli che hanno compreso che è possibile non abbassare la testa quando passa il piccolo o vecchio boss. Sono tanti quelli che hanno trovato, da calabresi e siciliani o genovesi, da cittadini che amano la libertà e la giustizia, la forza di dire e segnalare le cose che sanno e che hanno visto. Il silenzio si è rotto, la forza intimidatrice delle mafie retta dalla paura è esorcizzata, non permettiamo alle famiglie di mafia, ai loro affiliati ed alla loro manovalanza, di trovare scudo e protezione. Uniti si può sconfiggerli, loro lo sanno ed è proprio di questo che hanno paura!






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